lunedì 17 settembre 2007

GESTIONE DELLE ULCERE VENOSE DEGLI ARTI INFERIORI:TERAPIA COMPRESSIVA E MEDICAZIONE TOPICA.

1.1 DEFINIZIONE DELL ‘ IVC (1)

L’insufficienza venosa cronica (IVC) è conseguente ad uno scompenso del funzionamento delle vene periferiche.
Il ritorno del sangue verso il cuore, in equilibrio con le necessità tissutali, non è più garantito non solo in posizione ortostatica, ma anche clinostatica. L’IVC tuttavia non riguarda unicamente le vene (fattori vascolari), ma anche ogni causa che alteri il ritorno venoso –pompa muscolare del piede del polpaccio e coscia, alterazioni della motilità articolare del tessuto connettivo ( fattori extravascolari).
Si possono distinguere un’insufficienza del sistema venoso superficiale, del sistema profondo, o di entrambi.
La chiave di volta delle manifestazioni soggettive e obiettive dell’IVC è rappresentata dall’ipertensione venosa localizzata o diffusa con ripercussioni emoreologiche sulla macro e micro-circolazione l’edema ne costituisce la manifestazione caratteristica, sia sul piano fisiopatologico che clinico.

1.2 EPIDEMIOLOGIA

L’IVC appare una condizione clinica assai rilevante sia dal punto di vista epidemiologico sia per le importanti ripercussioni socio-economiche che ne derivano. Nei paesi occidentali sono ben note le conseguenze della sua elevata prevalenza, i costi dell’iter diagnostico e del programma terapeutico, le significative perdite di ore lavorative e le ripercussioni sulla qualità di vita.(2)
I dati epidemiologici fino ad oggi pubblicati riguardano soprattutto la prevalenza di vene varicose ed ulcere. I valori di prevalenza e di incidenza annuale prodotti da studi diversi sono frequentemente discordanti, a causa del differente disegno degli studi (comunità, popolazione, pazienti ricoverati), dalla stratificazione dell’età e del sesso del campione esaminato e dai criteri diagnostici utilizzati per definire le varici e l’IVC. ( 3,4,5,6,7,8,9)
La prevalenza di vene varicose nella popolazione adulta dei paesi occidentali è dal 25-33% nelle donne e del 10-20% negli uomini , ed aumenta con l’età.
Vene varicose e IVC prediligono il sesso femminile con un rapporto tradizionale stimato di 3:1 ed un’incidenza per anno del 2,6% nelle donne e del 1,9% nei maschi adulti entro la 5° decade.
Con l’aumentare dell’età si ha una tendenza all’inversione del rapporto .
Edema, pigmentazione cutanea, ed eczema hanno una prevalenza del 3-11%, mentre l’incidenza di ulcere attive è dello 0,3%, con una prevalenza combinata di ulcere attive e cicatrizzate del 1%.

1.3 FATTORI DI RISCHIO

Il fattore di rischio più rilevante dell’IVC è la familiarità . Il 70/80% dei pazienti affetti da vene varicose hanno una storia familiare di flebopatia, anche se manca un meccanismo genetico specifico. E’ stato segnalato che il rischio di sviluppare varici all’interno di un nucleo familiare aumenta parallelamente al numero di parenti affetti , se si è maschi e se la patologia si presenta precocemente. (10)
Negli anni 70/80 si era soliti distinguere le varici in .
-congenite o displasiche ( presenti dalla nascita);
-primitive o varici essenziali;
come se fattori ambientali e abitudini di vita modificate ( fumo, dieta povera di fibre, uso di contraccettivi) intervenissero nel determinismo di questi cambiamenti epidemiologici.
La gravidanza rimane comunque un fattore rilevante nell’epidemiologia dell’IVC .
Le interazioni gravidanza-sistema venoso, coinvolgono una serie di modificazioni fisiopatologiche temporanee del sistema venoso riguardanti il contenente (vene), il contenuto (sangue), e la velocità del flusso, che creano dei disturbi flebologici anche in assenza di varici.

1.4 PATOGENESI
Vene varicose
Sono una patologia primitiva legate ad alterazioni strutturali della parete e delle valvole venose.
Le principali alterazioni riguardano la struttura del connettivo (11,12,13,14), della matrice cellulare (15,16), e la disfunzione delle cellule muscolari lisce. (17)
La presenza di alterazioni cellulari e molecolari ha indotto alcuni Autori a ritenere le varici una malattia congenita ; tuttavia considerando che la semplice alterazione molecolare senza la presenza di fattori facilitanti non conduce a comparsa di varici, esse rimangono una patologia primitiva ed il termine congenito va utilizzato soltanto per indicare la patologia venosa presente dalla nascita.
Le varici evolvono verso la IVC nei casi non trattati chirurgicamente o nei casi di recidiva, ed il momento cruciale è rappresentato dal coinvolgimento delle vene perforanti, le cui strutture valvolari possono cedere per meiopragia strutturale o per sovraccarico e usura emodinamica .
Sindrome post-trombotica
Dopo la fase acuta della trombosi venosa, il trombo va incontro ad un processo di ricanalizzazione, che non sempre rappresenta un evento favorevole nell’evoluzione del quadro clinico.
Esistono una ricanalizzazione falsa, legata alla retrazione fibrinica ed all’adesione del trombo alla parete, ed una ricanalizzazione vera, dovuta alla proteolisi locale, con formazione di un nuovo canale all’interno del trombo. (18)
Il processo proteolitico coinvolge anche gli apparati valvolari eventualmente coinvolti nella trombosi, creando un’incontinenza con reflusso. Se il trombo originario interessava anche una vena perforante il processo proteolitico coinvolgerà anche questa sede ed il processo di ricanalizzazione con reflusso sarà più rapido.(19)


1.5 FISIOPATOLOGIA DELL’IVC

Le vene varicose con il reflusso safenico e la SPT con il reflusso nelle vene profonde realizzano un sovraccarico di volume nel sistema venoso degli arti inferiori, un caput mortum che, spinto verso il cuore ad ogni sistole muscolare di coscia e polpaccio, ritorna indietro durante la diastole.
Il sovraccarico di volume è per lungo tempo compensato dal sistema venoso integro ( il profondo nelle varici, il superficiale nella SPT).
L’efficienza emodinamica di questo compenso è basata sul sistema delle vene perforanti nelle quali il flusso è fisiologicamente diretto dal sistema superficiale verso il profondo, mentre quando le valvole divengono incontinenti si realizza un movimento di va e vieni.
In questa fase il flusso durante la diastole muscolare può continuare a dirigersi prevalentemente verso il sistema profondo (perforante continente compensata) o andare verso il sistema superficiale realizzando un va e vieni apparente senza alcun reale drenaggio (perforante incontinente scompensata)(20). In questo momento inizia lo scompenso della IVC, con comparsa di ipertensione venosa passiva e riduzione dello svuotamento venoso durante la deambulazione, che in condizioni normali e pressochè totale.


Fase emodinamica microcircolatoria
Seguendo la legge generale dell’emodinamìca , l’ipertensione venosa passiva ed il ridotto svuotamento venoso durante la deambulazione si ripercuotono sul distretto vascolare immediatamente a monte, rappresentato in questo caso dal sistema microcircolatorio, venule e capillari. Il mancato svuotamento deambulatorio coinvolge anche questi distretti , con una marcata stasi microcircolatoria che da un’iniziale stato di sofferenza funzionale espressa dalle alterazioni reticolari visibili alla capillaroscopia, passa alle tipiche alterazioni organiche con comparsa delle formazioni gomitolari (halo formation), aumento della permeabilità ed edema connettivale. (21,22)
Fase tessutale
La comparsa della stasi microcircolatoria e delle alterazioni capillari segnano l’inizio della fase tessutale dell’IVC , nella quale particolare importanza ha la microcircolazione della cute, vero organo bersaglio dell’IVC . Questa fase, al contrario della fase emodinamica , non è caratterizzata da una cascata di eventi fisiopatologici l’uno conseguente all’altro, bensì dal contemporaneo coinvolgimento di quel network cellulare e molecolare che gli esperti di microcircolazione indicano come microvascular flow system (MFRS) e microvascolar defence system (MDS) .
Si tratta del sistema endoteliale, piastrinico e leucocitario e delle molecole paracrine da essi prodotte; attivatori e inibitori fisiologicamente in continua produzione e rimozione , in equilibrio dinamico che caratterizza la funzione microcircolatoria in base alle richieste generali e distrettuali. (23)
La stasi e l’ipertensione venosa inducono repentinamente sull’endotelio un aumento della permeabilità ed un’alterazione della sua funzione. (24,25)
L’aumento della permeabilità si traduce in un aumento della filtrazione nell’unita micro-vasculo-tessutale, con aumento del liquido e della pressione interstiziali. Inizialmente questo aumento è compensato dal drenaggio microlinfatico che tuttavia è destinato ad esaurirsi sia per il raggiungimento della soglia massima di drenaggio, sia per la frequenza di microlinfangiti reattive al considerevole flusso linfatico. Il mancato compenso comporta un’ulteriore aumento della stasi che favorisce l’evoluzione fibrotica dell’edema, il rischio d’infezioni, la comparsa delle alterazioni trofiche cutanee, con possibilità anche di degenerazione maligna. (26)
Con l’aumento della permeabilità nell’interstizio non solo liquidi e cristalloidi, ma anche macromolecole come fibrinogeno e globuli rossi ( diapedesi). Il fibrinogeno, fuori dal vaso, polimerizza rapidamente in fibrina, che si deposita a manicotto intorno ai capillari impedendo l’ossigenazione tessutale (27). L’ipoperfusione tessutale da manicotto di fibrina stata ritenuta la principale responsabile della patogenesi dell’ulcera (28,29,30). Studi successivi non hanno confermato ne smentito del tutto la teoria, i manicotti di fibrina pericapillare sono una reazione tessutale frequentemente presente, che spesso persiste anche dopo la guarigione. (31)
La sofferenza endoteliale, d’altro canto, si esprime con una drastica riduzione dell’ATP intracellulare, con attivazione , attivazione della fosfolipasi A2 e della cascata dell’acidp arachidonico, con l’aumentata produzione di mediatori infiammatori (32,33,34) e di fattori di crescita attivi sulle cellule muscolari lisce (35,36,37), con attivazione e adesione dei leucociti ( ICAM e VCAM), che aggregano soprattutto nel distretto venulare e, infine, con aumento della lipoperossidazione , produzione di radicali liberi . (38,39,40)
Tutta questa serie di reazioni si traduce in trombosi microvasale, attivazione dei processi di morte cellulare e necrosi (41,42) . La diapedesi eritrocitaria e la successiva lisi causano accumulo di emoglobina ed emosiderina che rappresenta un’ulteriore stimolo chemiotattico per i macrofagi. L’effetto scavenger rimane tuttavia insufficiente a causa dell’adesione leucocitaria e l’emosiderina rimane per la gran parte nei tessuti. (43,44)


1.6 LE ULCERE VENOSE

Le ulcere venose sono legate all’ insufficienza venosa cronica, che a sua volta insorge in tutte quelle patologie che portano ad un difetto del ritorno venoso e all’ipertensione venosa. (45,46)
L’ulcera da stasi venosa è una lesione cutanea cronica che non tende alla guarigione spontanea, che non riepitelizza prima di 6 settimane e che recidiva con elevata frequenza. Alcune definizioni escludono le ulcere del piede,altre comprendono tutte quelle a carico dell’arto inferiore.
Le ulcere venose dell’arto inferiore rappresentano il 75% di tutte le lesioni trofiche a carico di questo distretto .
Si ritiene che l’insufficienza venosa cronica , benché sia stata meno studiata ed abbia ricevuto meno attenzioni dell’insufficienza arteriosa cronica , colpisca la popolazione adulta in misura 10 volte superiore .
Nonostante ciò la cura dell’ulcera venosa è spesso trascurata o del tutto inadeguata. Molti pazienti vanno avanti e camminano per mesi o addirittura per anni con l’ulcera ricoperta da medicazioni locali , senza che venga minimamente corretta l’insufficienza venosa che ne è alla base.
Le ulcere venose in fase attiva si ritrovano in circa lo 0,35 della popolazione adulta occidentale e la prevalenza globale di ulcere attive e guarite si attesta sull’ 1% con sconfinamento oltre il 3% negli ultra settantenni. La guarigione delle ulcere venose può essere ritardata od ostacolata dall’appartenenza dei pazienti a classi sociali medio-basse.
La prognosi delle ulcere venose è poco favorevole tendendo esse a guarire in tempi lunghi e a recidivare con grande facilita . Il 50/75% ripara in 4/6 mesi mentre il 20% resta aperto a 24 mesi e l’85 a 5 anni . (47)



1.7 CLINICA

Nella valutazione dell’insufficienza venosa cronica come fattore di rischio per lo sviluppo di ulcerazioni, uno dei primi segni clinici è sicuramente rappresentato dalle vene varicose, ma si possono anche osservare edema, dermatite da stasi, porpora e lipodermatosclerosi, ovvero una condizione di indurimento cicatriziale cutaneo a livello degli arti inferiori, esito di un processo infiammatorio cronico da insufficienza venosa (48) . Una delle conseguenze dell’insufficienza venosa cronica è l’atrofia bianca, in cui si ha una fase iniziale infiammatoria con eritema dovuta alla capillarite, e una fase tardiva atrofica, caratterizzata da alcune aree biancastre delle dimensioni di una moneta osservabili a livello distale della gamba o a livello malleolare (49). L’ulcera venosa può essere singola o multipla, e se non trattata tende a coinvolgere tutta la circonferenza dell’arto.
Le ulcere venose in genere hanno dei margini irregolari, piatti o lievemente rilevati. Il letto dell’ulcera, se pulito, non è necrotico ma rosa o rosso e tende, se non si ha infezione o deposito di fibrina, a formare tessuto di granulazione in modo spesso esuberante. Le ulcere venose tendono ad insorgere al di sopra del malleolo mediale, dove la safena ha un percorso più superficiale e dove effettua una grande curva.
Traumi o infezioni favoriscono lo sviluppo di ulcere in zone più prossimali.
Un rapido allargamento di un’ulcera corrisponde in genere ad una sovrapposizione infettiva della stessa. I pazienti con ulcere venose possono lamentare intenso dolore anche in assenza d’infezione . Il dolore è aggravato dalla stazione eretta fino a scomparire con l’elevazione dell’arto.

TERAPIA COMPRESSIVA E MEDICAZIONE TOPICA

APPROCCIO TERAPEUTICO (50)

La terapia delle ulcere venose si fonda sulla conoscenza dei meccanismi fisiopatologici che entrano in gioco nel determinismo dell’ulcera.
Tali meccanismi non sono più basati esclusivamente sulle nozioni di emodinamica macrovascolare, ma coinvolgono l’unità microcircolatoria e il laboratorio endoteliale.
Poiché l’ulcera venosa rappresenta una condizione cronica caratterizzata dalla lenta riparazione e dalla tendenza a recidivare , obiettivo della terapia è non soltanto la guarigione , ma anche e soprattutto la prevenzione della recidiva. Allo stesso tempo è di fondamentale importanza migliorare lo stato psicologico del paziente, sia per l’accettazione e la collaborazione nel programma terapeutico, sia per la stessa qualità di vita.
La terapia di un ulcera venosa può coinvolgere uno o più dei seguenti trattamenti:
1. Trattamento di base ;
2. Terapia farmacologia;
3. Compressione;
4. Medicazione topica;
5. Chirurgia
6. Scleroterapia;
7. Altre terapie;
8. Misure generali.
Nel lavoro che segue concentreremo la nostra attenzione sulla corretta gestione del letto della lesione vascolare (WBP), nonchè del corretto utilizzo della terapia compressiva, connubio indispensabile per la guarigione di un ulcera venosa.



2.1 TERAPIA COMPRESSIVA(51)

Per terapia compressiva s’intende “ la pressione esercitata su di un arto da materiali di varia elasticità al fine di prevenire e curare la malattia del sistema venolinfatico”( linee guida diagnostico terapeutiche delle malattie delle vene e dei linfatici del collegio italiano di flebologia, revisione 2003-2004).
Il termine compressione indica una azione attiva esercitata a riposo su un arto per le caratteristiche più o meno elastiche del sistema utilizzato con sviluppo di alte pressioni di riposo; la gamba è compressa anche a riposo.

2.2 MECCANISMO D’AZIONE

I meccanismi d’azione e le conseguenze cliniche della terapia compressiva in flebolinfologia sono stati descritti in un grande numero di lavori scientifici che possono essere riassunti in :
· Azione sul sistema venoso superficiale e profondo;
· Azione sul volume ematico ;
· Azione sui tessuti;
· Azione sul compartimento microvasculotissutale;
· Azione sul trombo venoso;
La compressione esercitata sugli arti inferiori provoca la riduzione del calibro venoso, il conseguente migliore collabimento dei lembi vascolari sani e la riduzione dei reflussi patologici ( perforanti incontinenti) sino al 30-40%.
La compressione sia per bende che per calze elastiche terapeutiche , diminuisce in modo molto evidente la superficie di sezione delle vene gemellari , di contro la riduzione del calibro della vena poplitea è variabile cosi come quello della vena femorale comune , mentre il volume delle varici superficiali appare sempre ridotto.
Il bendaggio riduce il volume ematico dell’arto inferiore di circa il 45% in posizione clinostatica e del 62% in ortostatismo, con un aumento significativo del riempimento ventricolare destro. Il pool sanguigno locale misurato da Partsch H. et al con globuli rossi marcati diminuisce del 30% dopo l’applicazione di un bendaggio compressivo di circa 40mmHg su tutto l’arto inferiore.
Durante la deambulazione questi effetti, sommati al potenziamento della spremitura delle pompe venose ( piede e polpaccio) provocano un aumento della velocità del flusso venoso e linfatico con riduzione del reflusso e quindi della stasi .
Alcuni studi dimostrano inoltre che per ottenere la maggior efficacia della terapia compressiva essa deve essere associata alla mobilizzazione e ad un appoggio plantare normale.
Studi radioisotopici hanno dimostrato che la pressione esterna esercitata dal bendaggio aumenta la pressione tissutale favorendo , per la Legge di Starling, il riassorbimento di liquidi verso il versante venoso e quindi determinando la riduzione dell’edema, insieme ai meccanismi gia citati.
Curri SB et al (1989) hanno indicato che la terapia compressiva con tutore elastico determina una diminuzione dell’ectasia venulo-capillare , dell’edema interstiziale e un ispessimento reattivo della membrana basale arteriolare in pazienti affetti da insufficienza venosa al secondo stadio di Widmer.
Allegra C et. al (1995) hanno dimostrato con uno studio microlinfografico la diminuzione della pressione endolinfatica e tissutale dopo quattro settimane di trattamento con un bendaggio a permanenza .
La compressione favorisce il distacco dei leucociti dall’endotelio e ne impedisce la ulteriore adesione. Si riduce anche la filtrazione capillare e il riassorbimento viene favorito grazie alla maggiore pressione tissutale.
I risultati di tutti gli studi effettuati mostrano unanimemente che la compressione determina una diminuzione della capacità venosa , che va a diminuire automaticamente il debito venoso e ad accelerare il ritorno venoso con aumento della velocità di flusso, che deve essere considerato come la causa principale degli effetti della terapia compressiva nella profilassi del TEV.
Il bendaggio compressivo aumenta l’aderenza dell’eventuale trombo alla parete venosa, a condizione che esso non oltrepassi il limite superiore del bendaggio; studi recenti mostrano che nei pazienti affetti da TVP ( purchè siano in grado di deambulare) si rileva una minore incidenza di episodi embolici se trattati con bendaggio , terapia eparinica e mobilizzazione rispetto alla sola terapia eparinica.
Al momento non ci sono dimostrazioni certe che la terapia compressiva abbia azione efficace sui diversi fattori della coagulazione: alcuni studi sembrano suggerire un potenziamento della fibrinolisi di parete venosa con l’uso di compressione pneumatica . si può sospettare che la terapia agisca anche riducendo la viscosità ematica , ma l’efficacia di essa nella profilassi delle TVP sembra comunque da ricondurre all’aumento della velocità di flusso venoso , dimostrato da molti autori.
Inoltre il potenziamento dello svuotamento venoso attraverso l’azione di contenzione sulle masse muscolari durante la deambulazione o l’esercizio, quando queste ultime nella fase di contrazione aumentano il loro volume , è da considerare a oggi uno dei meccanismi più efficaci , tanto che il binomio compressione-mobilizzazione è ritenuto indispensabile per ottenere effetti significativi dal punto di vista clinico.




2.3 GUIDA TERAPEUTICA (52)

L’esame clinico è di fondamentale importanza nella scelta di una terapia efficace di cura dell’ulcera delle gambe. Oltre il 90% delle ulcere alle gambe si verifica infatti in conseguenza di una insufficienza venosa cronica, complicazioni diabetiche e insufficienza arteriosa. È stato rilevato che i pazienti con ulcere soffrono spesso di altre patologie che occorre valutare nella scelta della terapia.
Una cartella clinica dettagliata del paziente aiuta a preparare la diagnosi differenziale.
La visita del paziente è necessaria per stabilire la grandezza e le caratteristiche della lesione e identificare eventuali patologie connesse.
Il processo di esame dei pazienti affetti da ulcera nell’arto inferiore viene descritto in varie pubblicazioni e viene largamente riportato in linee guida europee e britanniche. Tale processo dovrebbe anche includere una valutazione delle condizioni sociali del paziente in quanto possono influenzare la cura e la guarigione.
La mancata diagnosi di patologie arteriose espone il paziente a rischi connessi alla terapia a elevata compressione. La perfusione arteriosa va controllata con il doppler portatile misurando l’indice pressorio caviglia-braccio (ABPI è il rapporto tra la pressione sistolica dell’arteria tibiale post. o della pedidea e la passione omerale rilevata a livello dell’arteria cubitale). Lo studio e l’esperienza migliorano l’accuratezza dell’esame.
Anche il polso del piede andrebbe palpato, anche se tale esame da solo non costituisce un metodo di valutazione adeguato. Di solito un ABPI <>0,8 non sempre indica che la compressione elevata può essere applicata senza inconvenienti in quanto occorre prendere in considerazione altri fattori:
· Condizione della cute ( una cute delicata e fragile può essere danneggiata da una compressione elevata);
· Forma dell’arto ( la pressione esercitata dal bendaggio e il gradiente di pressione variano a seconda della forma dell’arto nel modo descritto dalla legge di Laplace ; la pressione può causare danni in presenza di prominenze ossee;
· Neuropatie ( l’assenza di risposta “protettiva” aumenta il rischio di danni provocati dalla pressione esercitata dal bendaggio;
· Insufficienza cardiaca ( rapide variazioni di fluido possono essere rischiose in quanto aumentano il precarico cardiaco.
Qualche volta l’ABPI non è affidabile, specialmente nei pazienti diabetici ove la calcificazione vascolare può impedire la compressione arteriosa e causare falsi aumenti di pressione sistolica arteriosa. I questi pazienti si sono mostrate più attendibili analisi delle forme d’onda Doppler e della pressione all’alluce. Possono anche essere utili la Po2 transcutanea e la misura laser doppler della pressione di perfusione cutanea . La perfusione arteriosa va misurata regolarmente in tutti i pazienti sottoposti a terapia compressiva , in particolare nei pazienti anziani in cui le patologie arteriose sono più comuni e possono svilupparsi più rapidamente .
La guida terapeutica sottolinea l’importanza di verificare la presenza di patologie venose. Oltre all’insufficienza venosa cronica, ci sono altre patologie che possono causare edema dell’arto e ulcere croniche , per esempio l’insufficienza cardiaca congestizia, l’insufficienza renale e l’obesità..
La presenza di patologie venose può essere verificata con ultrasuoni Duplex o pletismografia.


2.4 DIAGNOSI

Dopo l’esame clinico, le ulcere delle gambe possono essere classificate nei modi sotto indicati:
· Ulcere venose senza complicazioni : ulcere in presenza di malattie dell’arto con ABPI>0,8 e assenza di altre patologie importanti che impedirebbero l’impiego di terapia compressiva;
· Ulcere venose con complicazioni: ulcere in presenza di malattie venose con ABPI<0,8 o in presenza di altre patologie rilevanti che impedirebbero o complicherebbero l’impiego di compressione ad alta intensità,
Rientrano in questa categoria le patologie sotto indicate:
- Ulcere arteriose e venose miste ( insufficienza arteriosa moderata con ABPI di 0,5-0,8). In pazienti normotensivi con ABPI pari a 0,5 corrisponde a una pressione sistolica alla caviglia di 65/75 mmHg. A tale valore di pressione la compressione ad alta intensità è potenzialmente pericolosa.
- Ulcere arteriose miste ( insufficienza arteriosa grave con ABPI< 0,5);
- Ulcere arteriose;
- Altre cause di ulcere;

2.5 I METODI DI COMPRESSIONE

BENDAGGIO
Le più importanti proprietà delle bende e dei tutori elastici sono rappresentate dall’elasticità e dalla estensibilità o allungamento. La elasticità definisce la capacità del materiale di tornare alla lunghezza originale quando viene a cessare la forza traente. La forza richiesta per ottenere un allungamento specifico indica la potenza : tale parametro è determinante nella definizione della pressione esercitata dal bendaggio ad una estensione fissata.
Le bende inestensibili o ad allungamento corto (<70%),>140%) rispetto alle dimensioni iniziali , invece si caratterizzano per esercitare pressioni a “riposo” con uno scarto tra queste e quelle di “lavoro”inversamente proporzionale alla loro elasticità. Esse dunque mantengono una pressione continua, relativamente dall’attività muscolare, sul sistema venoso superficiale ,cosi come le calze, che sono costruite con fibre elastiche ad allungamento lungo. A seconda della estensibilità si hanno quindi differenti azioni durante la statica e il movimento, fermo restando che la terapia compressiva deve essere associata alla mobilizzazione del paziente per poter ottenere la massima efficacia:
- i bendaggi inestensibili e ad allungamento corto (<70%), come lo stivaletto all’ossido di zinco di Unna o le bende adesive e medicate, determinano alte pressioni di lavoro e basse a riposo, tali da poter essere mantenuti costantemente durante le 24h, essi rinforzano l’azione della pompa muscolare del polpaccio e hanno un’azione maggiore sul sistema venoso profondo, sono tollerati a riposo;
- i bendaggi estensibili oltre il 70% e le calze elastiche provocano invece minori pressioni di lavoro, e di solito devono essere rimossi a letto perché non tollerati.
La pressione esercitata da un bendaggio dipende essenzialmente dalla tensione T a cui viene applicato, dal numero di strati n e dal raggio dell’arto R. La relazione tra tali grandezze viene espressa dalla legge di Laplace P=Tn/R , che modificata diventa P= Tns/Ra , dove s è lo spessore del materiale usato e a l’ampiezza della benda . La tensione è determinata dalla forza applicata sulla benda nella sua estensione , ma la capacità del bendaggio di mantenere una tensione specifica e quindi la pressione esercitata deriva dalle sue proprietà elastomeriche ( isteresi-curve di allungamento e retrazione) a loro volta dipendenti dai tipi di filato e dai metodi costruttivi del tessuto usato. La capacità di un bendaggio di allungarsi , se sottoposto ad una forza tirante , viene detta estensibilità, che descrive la capacità di allungamento del materiale elastico, che in ogni caso a seconda delle sue proprietà di isteresi presenta un comportamento alla trazione diverso: la pressione applicata cresce proporzionalmente alla tensione fino ad un massimo oltre il quale si ha il fenomeno dell’overstraching, cioè la pressione si stabilizza.
Quando la benda è applicata , numerosi fattori ne determinano l’efficacia compressiva nel tempo : l’usura del materiale, la deambulazione con ripetuti e continui allungamenti e retrazioni , l’eventuale riduzione dell’edema , le caratteristiche fisiche del materiale usato . Si ritiene che la pressione diminuisca di circa il 40% gia dopo alcune ore dall’applicazione e tali effetti sono tanto maggiori quanto più la benda è a corta estensibilità , mentre i materiali molto elastici riducono al minimo tali effetti. Anche la posizione del paziente contribuisce alla variazione della pressione : essa aumenta in ortostatismo rispetto al clinostatismo.
L’applicazione del bendaggio dovrà essere effettuata mantenendo costante la tensione della benda e sovrapponendo con regolarità le spire l’una sull’altra in modo da dare uniformità alla pressione , poiché ad ogni sovrapposizione la pressione, per la legge di Laplace, aumenta in modo proporzionale.

2.6 LE CARATTERISTICHE DELLE BENDE
In commercio esistono numerose tipologie di bende , anche se nella pratica clinica flebologica la scelta si riduce essenzialmente a:
BENDE NON MEDICATE O SECCHE
-poco elastiche (anelastiche o inestensibili);
-elastiche (corta, media e lunga elasticità);
-adesive;
-coesive;

BENDE MEDICATE O UMIDE
-stivaletto di Unna e sue varianti ( benda elastica o non elastica )

· BENDE POCO ESTENSIBILI O A CORTO ALLUNGAMENTO
( ESTENSIBILITA’
Sono bende di contenzione pura in cui l’azione viene svolta soprattutto durante la sistole deambulatoria e non durante la diastole muscolare, sono bende che determinano una pressione di lavoro superiore a quella di riposo , sono ben tollerate a riposo. Esercitano una pressione efficace sui distretti profondi e sono in grado di ridurre rapidamente condizioni edemigene di svariata origine.
Sebbene questa tipologia di bende venga inclusa tra le bende a corta elasticità (elast.70%) è evidente che a rigore di termini è rigida o inestensibile una benda con un modulo elastico molto basso ( prossimo a zero) per cui a nostro avviso è bene distinguere nella applicazione clinica le bende poco elastiche o cosiddette rigide(<=30%) da quelle a corta elasticità (>30<70%). Un esempio di benda rigida o in estensibile è la benda all’ossido di zinco, ideata dal dermatologo P.G Unna nel 1885, di cui oggi esistono varianti anche elastiche.
Altri tipi di bende inestensibili sono generalmente di cotone , con una percentuale variabile tra il 20-40% di poliammide ad esempio le bende Ideal (Lohmann) ancora oggi usate nelle sale operatorie.
Alcuni Autori ritengono che la percentuale ottimale di elasticità delle bende a corta elasticità è del 30-40%, ossia quella ottimale per ottenere da un lato una elevata pressione di lavoro tale da agire anche sui distretti profondi, e dall’altro di non incorrere contemporaneamente negli inconvenienti del bendaggio completamente rigido , quali la notevole difficoltà di applicazione e la tenuta a dimora nel tempo.
La problematica fondamentale del bendaggio praticato con tale tipo di benda è la sua realizzazione e quindi la stabilità , soprattutto durante la marcia ( la pressione esercitata decade di circa il 40% dopo 6h); è infatti un bendaggio di difficile pratica , perchè facilmente si realizzano delle zone di maggiore o minore compressione con perdita dell’uniformità e degressività della pressione , o il bendaggio scivola verso il basso o si disloca creando aree edematose in alcune zone critiche come il dorso dl piede. È sicuramente più facile bendare un arto con una benda a media o lunga elasticità ( che sarà a riposo mal tollerata ) che con una benda rigida ( la più tollerata dal paziente).
Oggi l’impiego fondamentale del bendaggio inestensibile è la patologia ulcerativa , la lipodermatosclerosi , le dermatiti eresipelatose con o senza linfangite, le patologie edemigene gravi e la fase acuta della TVP dell’arto inferiore prima della calza elastica.

· BENDE ELASTICHE A MEDIO E LUNGO ALLUNGAMENTO

Esse vengono classicamente distinte in mono o biestensibili a seconda del verso elastico –estensibile (lunghezza o lunghezza +larghezza ) e in:
- bende a medio allungamento ( tra il 70 e il 140% della lunghezza iniziale)
- bende a lungo allungamento (>140% della lunghezza iniziale)

Vengono realizzate con filati elastici, naturali o sintetici , di vario tipo come il caucciù o le gomme naturali, il poliammide (Nylon) e l’elastane ( la Lycra) in associazione a materiali come il cotone.
Come già precedentemente accennato le bende elastiche vengono distinte in corto elastiche, medio e lungo elastiche. Questa modalità classificativa delle bende elastiche è sicuramente quella più divulgata al mondo ad opera della scuola Francese.
Tuttavia a tale proposito bisogna fare delle riflessioni e delle puntualizzazioni.
1. la tensione con cui viene effettuato un bendaggio elastico indica la forza dissipata nel tendere la benda quando la si avvolge intorno ad un arto;
2. la pressione esercitata dal bendaggio elastico sui tessuti dipende dalle caratteristiche costruttive delle bende ( modulo di Young, isteresi), dalla tensione a cui è sottoposta la benda, dal numero di strati applicati e dalla curvatura dell’arto (diversa nelle varie zone della gamba);
3. la capacità del bendaggio di mantenere una determinata tensione nel tempo e secondariamente la pressione sui tessuti dipende dalle sue proprietà elastiche ( tipo di elastomero con cui è fabbricata la benda);
4. la capacità di una benda elastica di allungarsi sotto trazione è definita estensibilità, mentre la capacità i una benda di tornare alla lunghezza originaria con la cessazione dell’allungamento è definita elasticità;
5. il bloccaggio rappresenta il punto di massima estensione della benda;
6. il punto di bloccaggio dovrebbe essere al 70% della estensione per le bende a corta elasticità, mentre di contro per le bende a lunga elasticità tale punto di bloccaggio dovrebbe superare il 140% della lunghezza originaria della benda. Tale bloccaggio può avvenire per bende appartenenti alla stessa categoria , ad esempio a corta elasticità ma contenenti elastomeri diversi, con l’impiego di forze (curve di isteresi diverse). In altre parole se non si esprime la forza impiegata per determinare quella particolare estensione , cioè la potenza =lavoro nel tempo , la definizione di corte, medie o lunga elasticità perdono significatività perché espressione delle sole caratteristiche fisiche del materiale usato. Il concetto di potenza è alla base di quello di tensione , poiché questo ultimo è un parametro che è direttamente correlato alla forza impiegata per determinare quel particolare allungamento;
7. la pressione esercitata dipende, inoltre, a parità di materiale usato e di potenza nell’applicazione , dalla tecnica di bendaggio e dalla sovrapposizione delle spire . un bendaggio a otto , ad esempio , è più compressivo di un bendaggio a spire regolari ,la pressione dipende anche dalla natura della benda a parità di allungamento : bende con diverse strutture di tessuto esercitano pressioni diverse , bende più pesanti con la stessa capacità di allungamento massimo comprimono maggiormente di altre nelle stesse condizioni di applicazione .
L’industria sta vagliando nuovi elastomeri ( vari-streach) in grado di determinare pressioni costanti a prescindere da variazioni entro certi range di estensione della benda , in modo da ridurre la variabilità intra-bendaggio ( stesso operatore) e inter-bendaggio ( operatori diversi).

· BENDE ADESIVE E COESIVE

Si tratta generalmente di bende a corta –media elasticità che sono in grado di aderire, mediante collanti acrilici o colla all’ossido di zinco, alla cute e a se stesse ( bende adesive) o solo a se stesse ( bende coesive). Queste ultime vengono fabbricate attraverso la polverizzazione sulla superficie delle due facce della benda di microbolle di latex , o acriliche, diluite in acqua che evapora poi per riscaldamento a 50° in forni appositi. La sospensione di latex si fissa e ricopre tutta la superficie della benda ed è in grado di aderire solo su se stessa. I collanti acrilici o all’ossido di zinco sono fortemente ipoallergenici e consentono di utilizzare tali bende , con relativa tranquillità, a diretto contatto con la cute. A tal proposito bisogna fare le seguenti precisazioni:
1. le bende adesive possono essere fabbricate con la presenza di elastomeri (caucciù ecc) o completamente in cotone con una tessitura definita elastica (elasticità non legata all’elastomero ma alla particolare trame della tessitura);
2. alcune bende alla colla di zinco sono in cotone e Rayon e possiedono bordi soffici e resistenti in modo da ridurre l’effetto laccio nei punti difficili;
3. alcune bende elastiche adesive sono costruite senza elastomeri con una trama particolare in puro cotone che determina una elasticità della benda definita “ a memoria variabile”. Queste bende che richiedono spesso tricotomia quando messe a contatto con la cute , hanno il collante disposto a strisce con un foglio protettivo che viene staccato al momento dell’uso. Se vengono tese fino al 50% della lunghezza ( tensione submassimale) si comportano come bende elastiche normali potendo riacquistare la lunghezza originaria , se invece si supera il 50% perdono la capacità elastica 8 tensione massimale) e si trasformano in bende rigide. Tali bende sono utilizzate soprattutto in ortopedia , medicina sportiva, fisiatria.
4. Le bende elastiche adesive , come quelle elastiche, possono essere monoestensibili ( allungamento in senso longitudinale) o biestensibili ( allungamento longitudinale e trasversale);
5. Le bende coesive sono un ulteriore esempio di bende a corta – media elasticità e spesso vengono nominate con l’aggettivo forte, media, leggera o soft per indicarne il potere compressivo;
6. Generalmente si preferisce utilizzare un salvapelle ( pellicola in schiuma poliuretanica con elevata porosità ) sotto il bendaggio adesivo anche se questa tecnica può ridurre la stabilità del bendaggio ( scivolamento). L’utilizzo di tubulari elastici sotto al bendaggio determina una maggiore stabilità del bendaggio stesso, con l’aggiunta della pressione esercitata dal tubulare, che è di circa 10mmHgalla caviglia.
Le tipologie di bendaggio con bende adesive o coesive consentono di avere dei bendaggi e permanenza ( bendaggi fissi che il paziente non deve rinnovare ) più stabili nel tempo e con pressioni medio elevate sui tessuti. Questo tipo di bendaggio trova indicazione quando dobbiamo attuare un bendaggio fisso che il paziente non deve rimuovere per un periodo lungo e mantenere sia la notte che il giorno ( ulcere venose , edemi ,postchirurgia o postscleroterapia).

2.7 CALZA ELASTICA TERAPEUTICA O MEDICALE

DEFINIZIONI
Calza elastica terapeutica o medicale ( medical stocking).
La calza elastica terapeutica o medicale (CET) è quella calza, costruita con materiali e metodi secondo le norme definite dalle legislazioni vigenti (RAL-GZ 387 Tedesca, NFG 30-102b IFTH Francese, BS7505 Inglese), che garantisce una pressione definita e degressiva lungo l’arto, entro certi parametri ,stabilita a seconda della classe compressiva, disponibile in vari modelli e misure. La compressione e l’aderenza alle modalità costruttive stabilite devono essere certificate costantemente da Istituti nazionali autonomi. La sola calza elastica terapeutica ha dimostrato nei trial clinici e nella letteratura scientifica mondiale una efficacia certa nella prevenzione e cura delle affezioni flebolinfologiche : è un dispositivo medicale a tutti gli effetti.
Calza elastica di sostegno
La calza elastica che non risponde in tutto o anche in parte alle normative, ma che può garantire una pressione in mmHg alla caviglia e/o negli altri punti dell’arto inferiore , mantenendo una degressività pressoria certa dal basso verso l’alto , è definita calza elastica di sostegno.

Calza elastica
Tutti gli altri tipi di calze costruite con fibre elastiche , che dichiarino pressioni in Den (denari) o non garantiscono pressioni definite e degressive sono da definire semplicemente calze elastiche.
Calza antitromboembolia
La calza antitromboembolia è quella calza elastica ,costruita con modalità in parte diverse per renderla tollerabile a riposo , che garantisce una pressione di 18 mmHg alla caviglia, il profilo presso rio lungo l’arto inferiore deve essere degressivo : in B1 80-100% della pressione alla caviglia (B), in C tra il 60-80% e in F o G tra il 40-70% ( CEN 1998, draftprEN 12719).

2.8 COMPRESSIONE PNEUMATICA

I sistemi di compressione pneumatica (CP) si differenziano per il numero e la sovrapposizione dei settori che costituiscono i gambali e i bracciali e per la determinazione delle sequenze di gonfiamento. Si distinguono apparecchi che esercitano una compressione intermittente , prodotti per primi nel 1950, costituiti da un gambale con una sola camera che si gonfia e alternativamente si sgonfia ; peristaltica (presenza di più camere allineate che vengono mantenute in pressione una alla volta); sequenziale (le camere sono multiple , embricate tra loro , gonfiate sequenzialmente e sgonfiate contemporaneamente ); pneumatica plantare (CPP).
Non esistono in letteratura prove definitive sulla superiorità di questo o quel sistema , ma si è bene considerare che l’azione esercitata deve essere la più fisiologica possibile. Secondo questo criterio la migliore pressoterapia appare essere quella detta sequenziale , in quanto la spinta dei fluidi avviene nella direzione fisiologica distale-prossimale, senza provocare reflussi, poiché le camere vengono gonfiate sequenzialmente una dopo l’altra rimanendo gonfie fino alla decompressione contemporanea di tutte; inoltre i tempi dei cicli sono rapidi ( circa 30 sec) e quindi permettono un numero maggiore di cicli nello stesso periodo di tempo (circa 60 in 30 min con 20 min effettivi di terapia). Si raccomanda comunque sempre di non superare pressioni di 40-50 mmHg e di intervallare le sedute con l’applicazione di bendaggi quando si debbano ridurre edemi importanti, per poi passare al tutore elastico di classe compressiva adeguata nella fase di mantenimento.
Recentemente è stato introdotto il nell’uso clinico per la profilassi del TEV un apparecchio di compressione sequenziale (SCD Responce) che permette cicli di compressione intermittente personalizzata, ottenuta mediante una analisi automatica del riempimento venoso pletismografico. La pressione esercitata dal gambale a tre camere e sei compartimenti è di 45 mmHg alla caviglia , 40 mmHg al polpaccio e 30 a livello della coscia.
Le controindicazioni sono rappresentate essenzialmente dallo scompenso cardiaco, che può essere notevolmente aggravato in tempi brevi dato lo spostamento rapido e importante di massa sanguigna verso il cuore destro, e le compressioni estrinseche sui vasi venosi. Le arteriopatie ostruttive non sembrano non sembrano rappresentare una controindicazione assoluta al trattamento poiché esistono in letteratura lavori che addirittura dimostrano un miglioramento della per fusione terapeutica dopo CP a basse pressioni : lo svuotamento delle vene induce una riduzione della resistenza di flusso ( riduzione del gradiente arteri-venoso), l’aumentato “shear stress” provoca un biologico effetto vasodilatatore e la riduzione dell’edema migliora il flusso capillare.

2.9 TECNICHE DI CONFEZIONAMENTO DEL BENDAGGIO COMPRESSIVO

Il bendaggio elastocompressivo può essere realizzato con vari materiali e con varie tecniche , a seconda della patologia , di esigenze particolari e a seconda della forma dell’arto o della sede dell’arto da bendare. Le caratteristiche fisiche fondamentali che un bendaggio deve avere sono la degressività e la uniformità .
Un bendaggio elastocompressivo può essere realizzato utilizzando:
· Bende anelastiche e ad allungamento corto
· Bende ad allungamento medio e lungo.

Questa è una distinzione fondamentale da un punto di vista clinico , in quanto a seconda dell’una e dell’altro gruppo di bende utilizzate potremmo mantenere in sede il bendaggio per diversi giorni ( con le bende del primo gruppo ) oppure , rendere necessaria la rimozione serale e il nuovo confezionamento all’indomani del bendaggio ( bende del secondo gruppo), poiché non tollerano la notte.
In linea generale si utilizzano le bende del primo gruppo nei pazienti più anziani , nelle insufficienze venose più e complicate da turbe trofiche , nelle forme associate a arteriopatia obliterante periferica ( lieve o moderata) . in ogni caso, si tratta di bende poco maneggevoli e possono essere utilizzate solo da professionisti con una certa esperienza.
Le bende del secondo tipo viceversa si utilizzano per patologie venose meno gravi , per la riduzione di edemi molli e per la compressione del circolo venoso superficiale.
Per quanto riguarda la messa in opera della benda , questa può essere realizzata seguendo varie tecniche, ognuna con delle indicazioni diverse. La benda deve essere srotolata mantenendo la mano vicino la superficie cutanea, in modo da evitare stiramenti verso l’alto o verso il basso o tensioni diverse, che possono determinare aree di pressione non uniformi nella stessa zona.
La posizione del paziente, seduto o sdraiato, non influisce sulla messa in posa della benda , se non per la maggiore o minore comodità di applicazione. Il tallone può essere mantenuto scoperto o non , a seconda se si voglia privilegiare una corretta deambulazione del paziente, oppure sia necessario ridurre un edema che coinvolge anche le fossette retro malleolari. In caso di bendaggio sino alla coscia l’articolazione del ginocchio , eccetto casi particolari , deve essere mantenuta libera.
Le tecniche più comuni , sulle quali poi si possono effettuare numerosi varianti personali sono:

· Bendaggio a spire regolari;
· Bendaggio a otto;
· Bendaggio a otto fissato alla caviglia;
· Bendaggio a rotolamento spontaneo;

Menzione a parte merita il:
· Bendaggio multistrato.

2.10 TECNICHE DI BENDAGGIO

1) BENDAGGIO A SPIRE REGOLARI
Comune a tutte le tecniche è la regola di srotolare la benda dall’interno all’esterno, cioè in direzione mediale-laterale. In pratica per bendare l’arto destro si procederà in senso antiorario, per l’arto sinistro in senso orario.
Si parte dalla radice delle dita del piede e dopo aver posto 2-3 giri sul piede stesso , si sale alla caviglia e si procede prossimamente con l’accortezza di sovrapporre del 50% le spire , cioè si stende la benda coprendo la metà della sottostante.
Quando si arriva al di sotto del ginocchio si completa il giro e si può , qualora siano avanzati dei centimetri di benda , stendere la stessa in direzione distale senza esercitare molta trazione.


2) BENDAGGIO A OTTO
È una variante del precedente : si parte dalla radice delle dita del piede a spire regolari e si procede prossimamente incrociando ad otto i giri di benda dal dorso del piede o dalla caviglia al sotto-ginocchio, la pressione massima si ottiene nei punti di incrocio dei giri di benda; questo tipo di bendaggio è più compressivo del precedente, perché prevede una maggiore sovrapposizione dei giri di benda, e più stabile nel tempo.
Nel confezionare questo bendaggio è opportuno prestare attenzione affinché gli incroci delle bende non corrispondano alla cresta tibiale poiché potrebbero causare lesioni cutanee.

3) BENDAGGIO A OTTO FISSATO ALLA CAVIGLIA
In questo caso si comincia dalla caviglia , si pone un giro di benda e si prosegue distalmente sul piede che andrà ricoperto fino alla radice delle dita .
Si continua di nuovo prossimalmente per tornare alla caviglia; a questo punto si procede con un giro a otto per poi continuare al di sopra con spire regolari.
È particolarmente indicato nel trattamento delle ulcere venose esercitando proprio una forte pressione al di sopra della caviglia , nella regione perimalleolare interna , dove si sovrappongono in questo caso almeno 5-6 giri di benda.

4) BENDAGGIO A SROTOLAMENTO SPONTANEO
Questo bendaggio è indicato soprattutto per le patologie del polpaccio in quanto esercita posteriormente la sua massima compressione , si procede partendo dalla radice delle dita del piede , si stendono alcuni giri e si sale sino al margine inferiore del ventre dei muscoli gemelli, a questo punto si avvolge il polpaccio sino sotto il ginocchio eseguendo poi un giro cosiddetto di fissaggio , cioè un giro completo di benda al di sotto del ginocchio stesso
dopo si procede di nuovo verso il basso a spire regolari, in modo da coprire completamente la gamba sino al di sopra della caviglia.

5) BENDAGGIO MULTISTRATO
È questo un sistema realizzato dalla Smith e Nephew ( Profore), composto da un kit di 4 bende , prodotto per diverse circonferenze di caviglia ( 18-25 cm e oltre 25 cm), che vanno applicate con una precisa sequenza e ognuno secondo una tecnica diversa.
- il primo strato è formato da una benda in sintetica (tipo cotone di Germania ) da stendere a spire regolari con sovrapposizione del 50% coprendo anche il tallone;
- il secondo strato è formato da una benda in crespo di cotone in estensibile che primo strato , da applicare da applicare a spire regolari con sovrapposizione di del 50% coprendo anche il tallone;
- il terzo strato è formato da una benda leggera a lunga estensibilità che va posta con la tecnica del bendaggio a otto allungando la benda del 50% e seguendo una linea gialla centrale come guida;
- il quarto e ultimo strato è formato da una benda coesiva , da applicare con la tecnica a spire regolari con estensione del 50% e sovrapposizione del 50%, che realizzerà una compressione finale alla caviglia di 40-50 mmHg.
Questo bendaggio dalle caratteristiche di ottimo confort, ma soprattutto dalla eccezionale capacità di riduzione di marcati edemi , è particolarmente indicato nelle patologie venose complicate da vaste ulcere , aree ipodermodermitiche resistenti ad altri trattamenti e importanti edemi e linfedemi.
Bendaggi multistrato “artigianali” possono essere confezionati , purchè si adoperino bende di qualità e si tenga conto delle regole generali del bendaggio.
La benda ad allungamento lungo deve essere posta al di sopra di quella rigida, se si vogliono ottenere le pressioni adeguate. La benda coesiva serve per mantenere meglio in sede il bendaggio cosi ottenuto , aumentare la pressione e dare uniformità al sistema compressivo.



6) LA COMPRESSIONE ECCENTRICA
Attraverso la modifica del raggio di curvatura del tratto di gamba su cui è applicata , nel senso di un suo incremento ( compressione eccentrica negativa) , o di una sua riduzione ( compressione eccentrica positiva) ha l’obiettivo di ridurre , nel primo caso, o di aumentare nel secondo la compressione esercitata da una qualsiasi compressione eccentrica ( calza o benda).
L a compressione eccentrica negativa è in genere usata sul dorso del piede, sul tendine di Achille , sulla cresta tibiale , sui tendini . Può essere attuata con strisce di spugna spesse fino a 4mm , o con ovatta a rotoli (collo del piede) , serve a prevenire irritazioni della pelle e dolore delle strutture sottocutanee.
La compressione eccentrica positiva ha per obiettivo l’aumento focale della compressione , può utilizzare diversi materiali.
1. le garze sono usate per il loro potere traspirante e antiessudante sulle aree di epidermide e di eczema. Inoltre la garza per la sua bassa deformabilità si utilizza di scelta nel confezionare tamponi circolari e compatti di 2-3 cm di diametro , da apporre sulle vene tronculari o reticolari e tenuti in sede con cerotto ipoallergenico per un giorno.
2. altro materiale è l’ovatta sotto forma di tamponi a nucleo:
- morbido , tamponi sferici di 1 cm di diametro;
- semirigido ( tipo odontoiatrico)
- rigido ( l’ovatta ricopre un foglio di alluminio compattato) di diversa forma utilizzati per la compressione selettiva dei punti di fuga
Questi tamponi hanno lo scopo di ridurre il raggio di curvatura della coscia e rendere pertanto , la compressione più intensa , in virtù della legge di Laplace.
3. altro importante presidio di compressione eccentrica è costituito dai cuscinetti di caucciù o schiume in lattice, di diversa forma. Le gia ricordate caratteristiche fisiche del caucciù , rendono tali tasselli capaci di sviluppare un incremento anche della pressione a riposo. Tali presidi trovano ampio utilizzo nel trattamento dell’IVC , in tutti i suoi stadi, compresa l’ulcera venosa , con la precauzione di evitare che il caucciù vada a diretto contatto con la sofferente .

2.11 MEDICAZIONE TOPICA (53)

Nel programmare le cure locali di un paziente con ulcera venosa è importante l’osservazione clinica, perché si deve tener conto della presenza di tessuto non vitale , dell’entità dell’essudato, di una eventuale infezione, dello stato della cute perilesionale. Il trattamento topico dell’ulcera venosa deve assicurare la detersione della lesione , la conservazione del microambiente , la protezione degli agenti infettanti e la stimolazione dei meccanismi cellulari.
È stato recentemente introdotto il concetto di “ wound ded preparation” ovvero la “gestione globale e coordinata della lesione, volta ad accelerare i processi endogeni di guarigione ma anche a promuovere l’efficacia di altre misure terapeutiche”. Esso comprende lo sbrigliamento o debridment (autolitico, enzimatico, meccanico) atto a rimuovere il tessuto necrotico con le componenti essudative e la correzione delle alterazioni del microambiente.
La medicazione ideale dovrebbe possedere le seguenti caratteristiche:
· non aderire , ne lasciare residui sul fondo dell’ulcera;
· mantenere la superficie dell’ulcera umida,
· essere impermeabile ai liquidi , ma permettere gli scambi gassosi;
· creare una barriera contro batteri e miceti;
· stimolare la crescita del tessuto di granulazione;
· alleviare il dolore,
· avere un costo ragionevole.

Attualmente, nonostante la grande varietà delle medicazioni proposte, non esiste ancora una ideale , né è possibile stilare dei protocolli rigorosi che siano validi per la cura di tutte le ulcere venose.
L’esperienza dimostra che ogni prodotto si rivela inizialmente efficace , ma tale beneficio può decrescere nel tempo, mentre un altro prodotto può poi portare a guarigione l’ulcera.
Per questo motivo si dovrebbe enfatizzare nel loro trattamento un atteggiamento dinamico , tenuto conto di varie fasi evolutive nella storia naturale dell’ulcera, che variamente può presentarsi necrotica , fibrinosa, esaudante, infetta detersa, granuleggiante , in fase di riepitelizzazione.
Se un tempo l’unica terapia era il bendaggio compressivo rigido e la medicazione locale con pochi prodotti detergenti e/o disinfettanti , attualmente si hanno a disposizione con indicazioni diverse a seconda delle fasi suddette, medicazioni occlusive, semiocclusive, assorbenti, medicazioni a base di carbossimetilcellulosa , arginati, poliuretano, collagene , colla di fibrina, chitosano, in forma di paste, di granuli, di schiume, di gel.
Recentemente è stata proposta l’applicazione locale di fattori di crescita, somministrati anche per infiltrazione.
Qualora sia presente un’infezione, devono essere allestite colture dell’essudato ed il trattamento iniziare con antibiotici sistemici. Gli antibiotici per uso topico non sono generalmente utilizzati, perché favoriscono l’insorgenza di dermatiti da contatto.
È stato dimostrato in un trial prospettico che i pazienti con ulcera venosa, trattati con l’emulsione argento-sulfadiafina associato a elastocompressione, sono guariti più velocemente rispetto al gruppo trattato con la sola compressione.
Nelle fasi più avanzate del processo di guarigione, quando la secrezione è scarsa e l’ulcera si superficializza, si può ricorrere si può ricorrere alle medicazioni cosiddette biologiche , utilizzando delle sottili pellicole a base di cellulosa o di acido jaluronico, che da una parte esercitano una funzione protettiva , impedendo l’infezione dell’ulcera, dall’altra forniscono un buon supporto per la migrazione e la proliferazione delle cellule basali dell’epidermide, mantenendo un adeguato livello di umidità che evita l’essiccamento della lesione.

CONCLUSIONI
La wound bed preparation è un obiettivo importante da raggiungere sia nel trattamento delle ulcere venose delle gambe che negli altri tipi di ferite . tuttavia gli elementi da prendere in considerazione per realizzarla sono diversi. Nel trattamento delle ulcere venose delle gambe, lo sbrigliamento raramente costituisce un problema . la priorità è l’ottenimento del bilancio dei fluidi , migliorando il ritorno venoso grazie ad un adeguato bendaggio compressivo. La stimolazione delle cellule perilesionali è collegata intrinsecamente al raggiungimento del bilancio dei fluidi, poiché senza di esso non avviene la migrazione epidermica.
Per non aggravare ulteriormente le risorse gia limitate, in genere, non è necessario utilizzare prodotti avanzati per il trattamento delle ulcere venose delle gambe, nel tratamneto di queste ferite è importante invece predire , possibilmente prima della quarta settimana di trattamento standard utilizzato, quali ulcere non guariscono rapidamente , in modo che i pazienti possano trarre il massimo beneficio dalle strategie di cura alternativae.
Inoltre , sono necessari ulteriori studi per poter valutare l’efficacia e il costo in situazioni cliniche particolari, in modo che i pazienti possano trarre il massimo beneficio da queste strategie terapeutiche.
I bendaggi compressivi multistrato ad elevata intensità di pressione hanno dimostrato inequivocabilmente di costituire una terapia sicura e di elevata efficacia nella cura della maggioranza dei pazienti affetti da ulcere venose gli arti inferiori senza complicazioni.
È possibile ottenere tassi di guarigione fino al 70% in 12 settimane e se vengono impiegati programmi di prevenzione di recidive, la qualità della vita dei pazienti viene notevolmente migliorata e viene anche ridotta la relativa spesa del bilancio sanitario pubblico.
La guida terapeutica sviluppata dall’International Leg Ulcer Advisory Boerd evidenzia la necessità di un esame accurato e una diagnosi particolareggiata per la scelt6a della terapia compressiva efficace in grado di ottenere la guarigione delle ulcere delle gambe senza complicazioni. Impiegando la guida terapeutica il personale sanitario può lavorando in collaborazione, sviluppare proprie procedure e fornire un servizio di elevata qualità ai pazienti affetti da ulcere degli arti inferiori.

























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sabato 15 settembre 2007

OSSIGENOTERAPIA IPERBARICA E MEDICAZIONI AVANZATE NELLA GESTIONE DELLE LESIONI CUTANEE. IL RUOLO DELL'INFERMIERE

INTRODUZIONE

La cute, con una superficie di circa 2 metri quadrati, è l’organo più grande del corpo e svolge molteplici compiti di vitale importanza. Ciò nonostante, la ricerca scientifica sul processo di cicatrizzazione delle lesioni cutanee non è realmente cominciata fino alla seconda metà del XX secolo, quando la convinzione che la “natura, non il medico, porta alla guarigione”, secondo gli antichi dettami di Paracelso, è stata gradualmente sostituita dalla consapevolezza di poter influenzare e guidare il processo di guarigione delle ferite.
Infatti, una migliore conoscenza dei processi fisiopatologici, che sono alla base dell’insorgenza delle ulcere cutanee, ha permesso di mettere a punto numerose strategie terapeutiche in grado di sostenere adeguatamente gli sforzi dell’organismo stesso mirati a ristabilire la continuità del rivestimento cutaneo.
Tra le strategie in questione , l’ossigenoterapia iperberica (O.T.I.), occupa sicuramente un posto di primo piano , diventando, infatti, una metodica terapeutica “quasi insostituibile” da sola o associata ad altre terapie, nella cura delle ulcere cutanee.
Accanto a tutto ciò, un ruolo non secondario è rivestito da una vasta gamma di prodotti creati per rispondere alle esigenze ed
alle caratteristiche delle ulcere cutanee, e mi riferisco alle “medicazioni avanzate”.
Le ulcere cutanee rappresentano un’affezione molto comune ,(si calcola che circa l’1% della popolazione ne sia affetta), estremamente invalidante in quanto spesso caratterizzata da cronicità, guarigione lenta e dolore, ed anche economicamente impegnativa per le famiglie e per la sanità .
Costituiscono una patologia d’interesse multidisciplinare, coinvolgendo il chirurgo vascolare, il chirurgo plastico, il dermatologo, il geriatra, il diabetologo, il reumatologo, il medico di medicina generale ed infine ma non ultimo l’infermiere.
Mi accingo a descrivere nel lavoro che segue, il delicato e fondamentale ruolo che l’infermiere svolge in un centro di ossigenoterapia iperbarica, al fine di garantire il corretto effetto sinergico tra l’ossigenoterapia iperberica e l’utilizzo delle medicazioni avanzate, connubio fondamentale per la guarigione delle lesioni cutanee con scarsa tendenza alla guarigione.



DEFINIZIONE DI ULCERA E CLASSIFICAZIONE EZIOPATOGENETICA

Le ulcere cutanee, per definizione, sono soluzioni di continuo della cute, che possono approfondirsi nel sottocute, piano muscolare fino al piano osseo. Sono caratterizzate dalla scarsa tendenza alla guarigione e si originano in seguito ad alterazioni del trofismo cutaneo, provocate dal danneggiamento dei vasi venosi, arteriosi o di origine neuropatica, oppure dagli effetti di una pressione locale e persistente.
Sebbene le ulcere cutanee si manifestano con quadri clinici molto eterogenei, i meccanismi fisiopatologici che portano alla cronicità si assomigliano molto, tutte le alterazioni vascolari che ne stanno alla base, anche se di diversa eziologia, sfociano alla fine in disturbi della nutrizione del tessuto cutaneo con
progressiva ipossia ed ischemia, il che ha come conseguenza la morte cellulare con formazione di necrosi .
Sebbene la maggior parte delle ulcere sia di origine venosa, altre cause comuni sono le patologie arteriose e neuropatiche; è tuttavia utile ricordare che le cause d’insorgenza di un’ulcera sono spesso multifattoriali. ( 1-2)

· Ulcere Venose
Le ulcere venose sono legate all’insufficienza venosa cronica, che a sua volta insorge in tutte quelle patologie che portano ad un difetto del ritorno venoso e all’ipertensione venosa .
Nella valutazione dell’insufficienza venosa cronica come fattore di rischio per lo sviluppo di ulcerazioni, uno dei
primi segni clinici è sicuramente rappresentato dalle vene varicose, ma si possono anche osservare edema, dermatite da stasi, porpora e lipodermosclerosi . (1-3)
· Ulcere arteriose
Le ulcere arteriose sono legate all’insufficienza arteriosa cronica. Le cause di occlusione o sub-occlusione ad andamento cronico dei vasi arteriosi sono l’arteriosclerosi unitamente all’angiopatia diabetica ed alla tromboangioite obliterante.(4)
Le ulcere arteriose appaiono tipicamente tondeggianti e a margini netti.
Frequentemente si osserva un fondo fibroso giallastro o un’escara necrotica. Anche la presenza di tessuti necrotici ed esposizione dei tendini suggerisce un’eziologia arteriosa o una pressione cronica.


· Ulcere neuropatiche
Le ulcere neuropatiche sono associate a fenomeni di parestesia o anestesia dell’arto inferiore, ed in particolare modo del piede. Le ulcere neuropatiche sono più comuni, anche se non ne sono esclusive, nel diabete mellito.
Sebbene i pazienti affetti da diabete mellito presentino una microangiopatia diabetica, caratterizzata dalla ialinosi della membrana basale endoteliale che comporta l’ispessimento della parete di arteriole, venule e capillari, dalla proliferazione endoteliale e dalla stenosi di questi piccoli vasi, si calcola che il 70% dei piedi diabetici sia dovuto alla neuropatia. (5)
Ciò che si osserva nel piede diabetico è la comparsa di aree callose sovra-ossee nelle zone di pressione con eventuale comparsa al centro di queste, di un’ulcerazione profonda.
· Ulcere da decubito
Le ulcere da decubito sono aree localizzate di danno tissutale che si sviluppano quando i tessuti molli vengono compressi tra una prominenza ossea ed una superficie esterna.
Sono dovute a lesioni ischemiche con conseguente necrosi della cute, del sottocutaneo e, spesso del muscolo che ricopre l’osso sottostante.
Le sedi in cui più frequentemente insorgono ulcere da decubito sono il sacro ( 85%), il grande trocantere , la tuberosità ischiatica, il ginocchio ( condili mediali e laterali), i malleoli, i talloni ; meno frequentemente vengono colpiti gomiti, scapole, coste, rachide, orecchie e nuca.
Le ulcere cutanee, anche se meno frequentemente, rappresentano il segno di patologie sistemiche di diversa natura tra queste vanno ricordate:
· Ulcere post-emboliche;
· Pioderma gangrenoso;
· Necrobiosis lipoidica diabeticorum;
· Vasculite allergica;
· Sindrome di Sneddon;
· Ulcere da criofibrinogenemia;
· Ulcere Neoplastiche;
· Organismi Infettivi;

2. MICROAMBIENTE E GUARIGIONE
Le attuali conoscenze scientifiche circa il processo di guarigione di un’ulcera si basano, senza mai sottovalutare il trattamento delle patologie di base che favoriscono la formazione dell’ulcera, sull’importanza della “preparazione del letto dell’ulcera”.
Questa moderna terminologia, ratifica l’importanza dei principi, gia applicati in passato sui criteri empirici di rimuovere o ridurre l’impatto dei fattori locali che possono creare un ritardo di guarigione, fino a raggiungere i criteri ideali di una lesione ben vascolarizzata, attraverso l’applicazione di principi basilari
della detersione, del controllo dell’umidità, del controllo della
carica batterica, di una riduzione dell’essudato e della creazione di un ambiente umido. (13)
· L’ambiente umido
All’inizio degli anni sessanta gli articoli chiave di Winter hanno dimostrato i benefici di una cicatrizzazione in ambiente umido. (14-15)
Da allora, il concetto di trattamento umido delle ferite è stato approfondito e chiarito, evidenziando come il mantenimento di adeguati livelli di umidità e ossigenazione a livello del letto
dell’ulcera facilitino la migrazione delle cellule epidermiche,
permettano un’aumentata concentrazione dei fattori di crescita,
inducano una stimolazione dei macrofagi e l’inizio della
detersione autolitica, abbiano effetti favorevoli sulla flora microbica, e, infine, stimolino i fibroblasti e la produzione di collagene. (16-17)
Questi effetti si traducono in una velocità di guarigione superiore del 50%, rispetto ad una lesione secca, associata ad una più rapida riepitelizzazione.
· La detersione
La detersione comporta la rimozione del tessuto morto, devitalizzato o contaminato e dei materiali estranei dal letto dell’ulcera .
Attraverso la rimozione del tessuto necrotico e infetto, la detersione riduce inoltre la carica batterica superficiale, esponendo gli spazi morti o loculati che possono rappresentare un ricettacolo di batteri o di essudato purulento.
E’ stato recentemente affermato come la detersione converte un’ulcera cronica o senza tendenza alla guarigione in una lesione acuta.
Questo concetto, anche se apparentemente semplicistico, trova ragione nell’ipotesi che la detersione rimuove le cellule non più rispondenti ai fattori di crescita e non più in grado di
sintetizzare i costituenti della matrice extra cellulare.
La rimozione del materiale disvitale permette, inoltre, la precisa valutazione delle dimensioni e della profondità della lesione e della natura delle strutture interessate dal processo ulcerativo. Può essere d’aiuto pensare al letto dell’ulcera in termini di colori: nero (necrosi), giallo (fibrinoso), rosso (granulazione), spesso variamente associati fra loro.
L’escara nera indica la presenza di tessuto devitalizzato che deve essere sempre rimossa perché possano iniziare i meccanismi di riparazione dai margini della lesione. Un fondo giallo adeso al fondo rappresenta generalmente strutture
profonde come fascia o tessuto sottocutaneo e non necessariamente deve essere rimosso.
Un materiale giallo e molle può invece indicare la presenza di un processo infettivo o di fibrina degradata che deve essere eliminata, per non ostacolare la formazione del tessuto di granulazione (18) . I metodi utilizzati per la rimozione dei fattori che si oppongono alla guarigione delle ulcere croniche sono rappresentati dalla detersione chirurgica, enzimatica , autolitica e meccanica meglio descritti nel paragrafo successivo.
· Controllo dell’essudato
Negli ultimi anni, è stato evidenziato come l’essudato presente
nelle ulcere croniche abbia effetti negativi sulla proliferazione e
attività di alcuni tipi cellulari fra cui i fibroblasti e cheratinociti coinvolti nel processo riparativo (19) . L’essudato è generalmente descritto in base alla quantità (assente, moderato, abbondante), all’aspetto (sieroso, siero-ematico e purulento) e in base alla presenza o assenza di odore. Se la quantità dell’essudato prodotta non viene controllata, questo può venire a contatto con la cute perilesionale e provocare macerazioni, con possibile estensione delle dimensioni dell’ulcera. Una notevole quantità di essudato deve allertare sulla presenza di cause sottostanti, come la presenza di edema, o rappresentare un segno precoce di infezione.
L’edema deve quindi essere trattato, poiché causa di ritardo di guarigione per ragioni ancora non completamente conosciute, ma che probabilmente rappresentano una combinazione di ridotto flusso ematico, aumentata colonizzazione batterica dovuta all’accumulo di fluido interstiziale e forse intrappolamento di fattori di crescita e altri peptidi chiave da parte di macromolecole che fuoriescono dallo spazio extravascolare.
La presenza di essudato abbondante può inoltre rappresentare
un segno precoce di infezione in alcuni casi il colore e l’odore
dell’essudato possono rappresentare una guida sul tipo di microrganismo implicato, come nel caso di contaminazione da pseudomonas, che determina un essudato verdastro dal caratteristico odore.
· Controllo dell’infezione
Nella pratica clinica, può essere difficile valutare un ulcera che passa da una carica batterica non patologica a una vera e propria infezione in grado di ritardare il processo di guarigione.
Sono stati recentemente introdotti i concetti di contaminazione batterica, colonizzazione, colonizzazione critica e infezione locale o sistemica, che rappresentano una guida per l’uso di agenti antimicrobici.
La maggior parte delle ulcere è contaminata e contiene microrganismi non proliferanti. La colonizzazione è rappresentata dalla presenza di microrganismi replicanti ma che non causano danno all’ospite. Né la contaminazione nè la colonizzazione determinano segni clinici d’infezione o ritardo di guarigione.
Il concetto di colonizzazione critica (aumentata carica batterica) è stato introdotto recentemente per descrivere ulcere in movimento dalla semplice colonizzazione alla vera e propria infezione.
E’ stato suggerito che durante la colonizzazione critica possano
essere presenti segni clinici modesti d’infezione, quali aumento
del dolore o senso di tensione, aumento dell’essudato sieroso, comparsa di tessuto di granulazione friabile, o mancanza di guarigione, prima dei segni classici di odore, pus, eritema circostante ed edema classici di infezione conclamata. (20)
La presenza di un’infezione può coincidere con la presenza di materiale giallastro colliquato. Nella fase di granulazione un’aumentata carica batterica può determinare la comparsa di tessuto di granulazione di colore scuro, esuberante, friabile e maleodorante. L’ipergranulazione deve essere rimossa per favorire la riepitelizzazione.
Bisogna ricordare tuttavia come molti pazienti con ulcere croniche presentano un ritardo di guarigione. Questi pazienti possono anche mostrare segni sub-clinici o avere completa assenza di segni d’infezione, nonostante i microrganismi stiano danneggiando il letto dell’ulcera.
Fattori come l’immunosoppressione, il diabete e alcuni farmaci possono inoltre favorire un processo infettivo e mascherare i segni classici dell’infezione, quali eritemi, aumento della temperatura, dolore e edema locale.
Una causa importante di aumento della contaminazione batterica e di ritardo della cicatrizzazione è rappresentata dalla presenza di uno spazio morto non colmato. (21)
Le aree cavitarie, o sottominate, dell’ulcera devono essere quindi gentilmente zaffate con adeguati materiali di medicazione, evitando un iper- riempimento della cavità che determinerebbe, infatti, una compressione del tessuto di granulazione neoformato creando un danno che impedisce o ritarda la guarigione. L’iper-riempimento può inoltre ridurre la capacità assorbente del materiale di medicazione impedendo l’assorbimento dell’essudato.
In presenza di sospetto di infezione locale, un esame colturale risulta d’ausilio per evidenziare i microrganismi presenti e
valutare la carica batterica.
Il semplice lavaggio mediante irrigazione dell’ulcera, oltre ad eliminare l’essudato e i detriti superficiali, rappresenta già una metodica efficace nel ridurre la carica batterica e rimuovere il materiale contaminato dalla superficie dell’ulcera.
L’uso di antisettici locali appare ancora controverso, in quanto a una riduzione della proliferazione batterica si associano spesso effetti citotossici.
Sotto questo profilo, il povidone/iodio e la clorexidina appaiono i prodotti dotati di minor attività istolesiva a fronte di una buona attività terapeutica.
Sono attualmente disponibili prodotti antisettici in grado di rilasciare lentamente il principio antibatterico in modo di ridurre la tossicità cellulare e tissutale. Tra questi il cadexomero iodico permette, inoltre, la creazione di un ambiente umido.
La sua composizione in microsfere polisaccaridiche (cadexomero), gli permette di assorbire liquidi fino a sette volte il suo peso in acqua, mentre il lento rilascio dello iodio garantisce una adeguata antisepsi in assenza di effetti citotossici.
Un’estensione dei segni clinici d’infezione oltre i limiti della lesione, o un’esposizione ossea, impongono sempre il ricorso
ad antibiotici per via generale.
· La fase di riepitelizzazione
Coincide con la comparsa di bottoni di nuovo epitelio ai margini della lesione, ma anche nelle sue porzioni centrali a partenza dalle strutture follicolari residue.
Questa fase rappresenta lo stadio conclusivo di un’adeguata preparazione di un letto di una lesione ben vascolarizzato, in
cui sono stati creati i presupposti per il proseguimento dei meccanismi fisiologici della cicatrizzazione.
In questa fase appare importante soprattutto la copertura della lesione, al fine di evitare la contaminazione batterica, mediante
materiali in grado di mantenere un’adeguata umidità locale e di essere rimossi senza danneggiare i fragili bottoni di granulazione e di riepitelizzazione neoformati.

3. TERAPIA DELLE ULCERE
I numerosi studi circa l’importanza del microambiente ai fini della guarigione dell’ulcera, hanno data vita alla commercializzazione di varie categorie di medicazioni definite “avanzate” che trovano, di volta in volta, precise indicazioni a secondo della fase dell’ulcera.
Si è visto, però, che anche la più moderne metodiche terapeutiche, se applicate ad un’ulcera non pronta a riceverle, risultano di scarsa attività se non addirittura fallimentari pur non essendolo.
Di qui la necessita dell’introduzione del concetto di “preparazione del letto dell’ulcera “(wound bed preparation ).
Il percorso clinico per la “preparazione del letto dell’ulcera” e quindi per la terapia dell’ulcera cutanea, prevede almeno
quattro momenti fondamentali che nella pratica clinica sono spesso applicati contemporaneamente e conseguenzialmente :
1 DETERSIONE PRIMARIA;
2 ANTISEPSI;
3 SBRIGLIAMENTO;
4 MEDICAZIONE
.

· La detersione primaria
E’ la prima procedura da applicare e avviene mediante semplice ma accurato lavaggio dell’ulcera allo scopo di rimuovere dal fondo polvere ed essudati e alleviare il dolore. Può essere attuata mediante strofinamento tangenziale con garza imbevuta di soluzione fisiologica o con semplice irrigazione. Richiede di particolare attenzione nelle fasi di guarigione per non rimuovere
tessuto di granulazione del fondo e pertanto è eseguita, in questo caso, con irrigazione a bassa pressione.
· L’antisepsi
E’ una fase molto complessa legata al concetto che ogni perdita della continuità della cute comporta contaminazione e
colonizzazione batterica, eventi che possono non necessitare di trattamento.
E’ solo a fronte dei segni locali e generali d’infezione (eritema, edema, pus, dolore, febbre) che s’impone un trattamento. L’uso di disinfettanti topici dovrebbe essere ridotto al minimo per la loro nota azione cito e isto- lesiva, pur tuttavia bisogna anche considerare la loro notevole attivita; per tali ragioni molti Autori suggeriscono saltuarie utilizzazioni , mentre altri , considerandoli attivi anche a diluizioni non citotossiche , suggeriscono tale metodica; certamente molto utile, ove disponibile, la coltura con topogramma (antisetticogramma ) . Fra i meno cito- istolesivi sicuramente si possono segnalare il cadexomero iodico e l’argento ionizzato.
Inoltre, nei recenti lavori riguardanti l’adeguata preparazione del fondo (22-23) viene da più parti suggerito di trattare anche le colonizzazioni, in assenza dei segni d’infezione, dal momento che l’alta carica batterica (colonizzazione critica) è causa di abbondante essudato che rallenta i processi di guarigione e impedisce l’attivita dei sostituti cutanei e dei fattori di crescita. Forse per la prima volta gli Autori nord-americani consentono anche l’utilizzazione, in casi selezionati, di antibiotici topici (mupirocina).
· Lo sbrigliamento
La presenza di tessuto devitalizzato allunga la risposta
infiammatoria, ostacola meccanicamente la contrazione, impedisce la riepitelizzazione e soprattutto costituisce un ottimo substrato allo sviluppo di infezioni oltre a impedire un’adeguata valutazione visiva del letto dell’ulcera. Pertanto l’ablazione di tessuto devitalizzato che si presenti, sia come vera e propria escara, sia come induito fibrinoso al fondo, rappresenta uno degli atti fondamentali per la guarigione dell’ulcera.
I metodi di sbrigliamento sono sostanzialmente quattro:
a) Chirurgico ;
b) Enzimatico ;
c) Autolitico ;
d) Meccanico
;
La scelta del metodo più idoneo è legata a vari fattori inclusi le condizioni cliniche generali del paziente, l’aspetto della lesione, la disponibilità di adeguate attrezzature. Ognuna delle quattro tecniche presenta vantaggi e svantaggi, indicazioni e controindicazioni.
· La Tecnica Chirurgica
E’ la più rapida e a basso costo, migliora la perfusione locale, riduce il rischio d’infezione e, provocando un sanguinamento, favorisce il rilascio di citochine piastriniche utili alla guarigione. Richiede però a volte di anestesia, specie per ampie escarectomie, ed è comunque causa di dolore; eventuali terapie anticoagulanti devono essere tenute in considerazione per il sanguinamento che provoca.
Controindicazioni maggiori sono rappresentate dall’inesperienza dell’operatore, le gravi insufficienze vascolari, che renderebbero l’ulcera scarsamente suscettibile alla guarigione, e la presenza di setticemia in assenza di adeguata copertura antibiotica.
E’ generalmente considerato un metodo selettivo, ma in condizioni particolari può diventare non selettivo per ablazione di tessuti vitali circostanti. E controindicata nella necrosi del tallone senza segni di infiammazione o edema. (24)
· Il Metodo Enzimatico
E’ sicuramente il più selettivo. Prevede l’applicazione di enzimi proteolitici che agiscono principalmente sul collagene nativo che lega la necrosi al letto dell’ulcera. Tra i prodotti disponibili
sul mercato la collagenasi, sintetizzata dal “clostridium histilyticum”, oltre ad aver dimostrato maggior attività proteolitica rispetto ad altri, incrementa l’attivazione e la mobilità dei cheratinociti. (25)
Deve però essere applicata giornalmente ed in assenza di
detergenti, antisettici, metalli pesanti ed antibiotici che ne potrebbero inattivare l’azione.
In caso di escare di notevole spessore può essere consigliabile praticare delle incisioni lineari per consentire un maggiore assorbimento del prodotto.
Spesso nella pratica clinica la metodica enzimatica precede quella chirurgica per renderla più agevole.


· Lo sbrigliamento autolitico
Avviene in qualche misura spontaneamente in tutte le ferite, è un processo molto selettivo che coinvolge macrofagi ed enzimi proteolitici, che liquefanno e separano il tessuto devitalizzato da quello sano.
Medicazioni quali le schiume di poliuretano, idrogel e films, mantengono un ambiente umido e favoriscono i processi autolitici fisiologici. In particolare gli idrogel, sia in forma di placca sia amorfi (gel) agiscono cedendo notevoli quantità
d’acqua mentre, le schiume di poliuretano mantengono l’ambiente umido e possiedono attivita fibrinolitica.
Il debridement autolitico richiede, però, tempi più lunghi rispetto ad altre tecniche, anche se è certamente indolore e molto selettivo; è controindicato su ulcere infette e in pazienti immunocompromessi.

· Lo Sbrigliamento Meccanico
E’ un metodo non selettivo che rimuove fisicamente tessuti devitalizzati.
Una delle tecniche più in uso è la cosiddetta medicazione wet to dry che consiste nell’applicare garze umide che, cedendo acqua, essiccano e alla loro rimozione dopo 4-6 ore, strappano via il tessuto devitalizzato adeso alla garza.
E’ sicuramente causa di dolore per il paziente, d’impegno temporale per il personale addetto, di macerazione dei tessuti sani perilesionali e inoltre può provocare danni all’eventuale tessuto neoformato del letto dell’ulcera.


LA MEDICAZIONE
La medicazione è classicamente distinta in primaria e secondaria:
La medicazione “Primaria” è quella a contatto del letto dell’ulcera, quella “Secondaria” è la copertura della precedente. Pur essendo evidente che la medicazione primaria è quasi sempre una medicazione avanzata, non è altrettanto ovvio che quella secondaria sia sempre una semplice fasciatura; a volte infatti si possono associare due medicazioni avanzate, l’una come primaria l’altra come secondaria ; un classico esempio è la medicazione di un idrogel amorfo su ulcera a
fondo ricoperta di tessuto devitalizzato e la copertura con un
film che consente fra l’altro, di valutare per la sua trasparenza l’evoluzione nel tempo della medicazione stessa.
Atteso il concetto base di ambiente umido, la scelta della medicazione in una qualunque fase del processo riparativo, influenza notevolmente gli eventi successivi, per tale ragione sibbald et al (23) , hanno riassunto le raccomandazioni AHCPR (Agency for Health Care Policy and Research) in sette punti:
- E’ importante usare una medicazione che manterrà l’ambiente umido;
- Usare giudizio clinico per scegliere la medicazione umida adeguata al tipo di ulcera;
- La medicazione scelta deve mantenere contemporaneamente umida la cute circostante;
- La medicazione deve controllare gli essudati senza asciugare il fondo e non macerando il bordo sano;
- Medicazioni semplici da usare e che non richiedono cambi frequenti riducono l’impegno temporale del personale addetto;
- E’ importante riempire bene le cavità ma si devono evitare le medicazioni eccessive per non danneggiare eventuali tessuti neoformati e per non ridurre le capacità assorbenti;
- Tutte le medicazioni devono essere adeguatamente monitorate con particolare riguardo a quelle in sedi di scorrimento o vicino all’ano.
Nessuna delle medicazioni disponibili può essere adeguata a tutte le raccomandazioni e pertanto è utile a questo punto fare
riferimento alle caratteristiche delle singole medicazioni avanzate per suggerire le indicazioni migliori per quella medicazione.
Le schiume sono primariamente utili in ulcere molto essudanti, o con induito particolarmente sieroso. Gli alginati sono ideali nelle ulcere infette e/o modicamente sanguinante. Gli idrogel sono particolarmente appropriati per il trattamento delle ulcere
con induito fibrinoso asciutto o con scarso essudato e per le escare.
Le schiume di poliuretano sono indicate nel debridment autolitico per ulcere con essudato da lieve a moderato e nelle fasi di guarigione per promuovere la granulazione. I film sono ideali per le ultime fasi di guarigione, granulazione e riepitelizzazione, per le loro caratteristiche di permeabilità all’ossigeno e al vapore acqueo e impermeabilità all’acqua e ai batteri.
Nella fase di buone detersione dell’ulcera deve essere preso in considerazione anche l’approccio chirurgico con la possibilità di coprire il fondo con innesti liberi nelle ulcere superficiali, con lembi sottili o spessi nelle ulcere più profonde.
Si devono menzionare i fattori di crescita per uso topico, che necessitano come detto, di fondo completamente deterso e quotidiane applicazioni e sono di costo relativamente basso.
Molto costosi sono anche i sostituti cutanei biologici che in ogni modo richiedono di assenza d’infezione, necrosi, sanguinamento o dermatite e la cui applicazione a volte necessita di essere anche
più volte ripetuta.
Infine l’ultimo ritrovato della biotecnologia per la cura delle ferite è il gel piastrinico.
Si tratta di un concentrato di derivati ematici autologhi, che si prefigge un approccio inedito per la guarigione delle lesioni utilizzando i fattori di crescita e le cellule per riparare i tessuti.



STORIA DELLA TERAPIA IPERBARICA (27).

L’ossigenoterapia iperbarica (O.T.I ) è intimamente connessa con la medicina subacquea e, quindi, all’avventura dell’uomo nel mare. Le prime tracce d’attività subacquea, risalgono al 900 a.c. in seguito, però compaiono notizie di subacquei impiegati in operazioni militari.
Sin da allora, inoltre, si è cercato il modo per fornire al subacqueo l’aria affinché potesse restare sott’acqua il più a lungo possibile. Bisogna aspettare però il 1531, anno in cui viene utilizzata per la prima volta la campana d’immersione, per raggiungere un’autonomia di alcune ore sott’acqua. Nel 1772 Priestly scoprì l’ossigeno e, poco tempo dopo Lavoisier (1773) ne chiarì la funzione nella respirazione. L’uso terapeutico dell’ossigeno normobarico avvenne per la prima volta nel 1783, in Inghilterra grazie a Beddoes, il quale spinto dall’entusiasmo per il suo progetto, costituì la “Medical Pneumatic Institution “, dove cercò di trattare con l’ossigeno i tipi più disparati di malattie, come la scrofola, la lebbra e la paralisi raccogliendo numerosi insuccessi . In seguito John Smeaton progettò delle camere di dimensioni tali da poter, alloggiare contemporaneamente più persone, inoltre, l’utilizzo di pompe ad
alta capacità consentì di erogare aria ad una pressione tale da impedire all’acqua di entrare .Queste camere asciutte furono chiamate “ caissons “, parola francese che significa letteralmente “scatoloni o cassoni”. Col tempo si costruirono cassoni nei quali, dalla superficie, attraverso una camera di trasferimento, uomini e materiali potevano entrare ed uscire mantenendo costante la pressione nel loro interno.
Grazie a queste strutture si potevano svolgere attività subacquee per lunghi periodi di tempo e vennero quindi molto utilizzate soprattutto per lavori particolari, quali scavi per fondazioni di
ponti o per la costruzione di tunnel. Sin dall’inizio, però, si noto che quasi tutti i cassonisti venivano colpiti da disturbi respiratori oppure da dolori acuti a livello articolare (o addominale), inoltre, tali individui affermavano di stare meglio durante l’immersione che alla fine della giornata lavorativa. Poiché non si conosceva ancora l’influenza della pressione sull’azoto, tale fenomeno fu attribuito rispettivamente al riposo precedente al lavoro ed alla fatica accumulata al termine di esso. Con l’impiego dei cassoni in progetti più importanti e con l’aumento della pressione a cui si esercitava il lavoro, i problemi fisiologici aumentarono (per numero e gravita) e l’incidenza dei decessi diventò allarmante .
Questa patologia fu pertanto denominata malattia dei cassoni,
e solo nel 1878, il filosofo francese Paul Bert ne descrive l’evento fisiopatologico. In concomitanza con lo sviluppo delle attività subacquee, e come diretta conseguenza di queste, si è avuta una maggiore diffusione della medicina iperbarica ed un ampliamento delle indicazioni terapeutiche e, quindi, si è cominciato ad utilizzare, con razionalità, l’ossigeno iperbarico in tutti i casi d’ipossia tessutale . I primi centri Italiani di terapia iperbarica sono sorti quasi contemporaneamente, a Napoli e a Torino intorno agli
anni sessanta. In particolare il centro Napoletano fu istituito dal
prof. Nicola Cocchia, e risalgono a quel periodo le prime ricerche sperimentali della Sua Scuola su alcuni meccanismi d’azione dell’O.T.I ( azione antiedemigena e antibatterica ) , successivamente seguite da studi sull’applicazione dell’O.T.I nella terapia della necrolisi tossica epidermica , e della sindrome da schiacciamento .

FISIOLOGIA DELL’OSSIGENO E MECCANISMO D’AZIONEDELL’O.T.I (28)
L’ossigeno è un gas inodore, incolore, senza gusto non infiammabile, indispensabile per vivere e per i processi di combustione.
In iperbarismo la ppO2 diventa circa 22 volte più elevata che in normobarismo .
Come aumenta in iperbarismo la pressione parziale di O2 alveolare, cosi aumenta la quota di O2 trasportata nel sangue . L’ossigeno iperbarico, quindi, rende il plasma in grado di soddisfare pienamente le esigenze dell’organismo, anche in assenza di emoglobina, secondo un fenomeno che prende il nome di “plasma skimming “ , funzionante solo se la pressione parziale di O2 è superiore o uguale a 100 mmHg.
Giunto ai tessuti, l’O2 si deposita in essi . L’ossigeno si accumula soprattutto nei polmoni e nel sangue.
Molteplici sono i meccanismi d’azione e gli effetti dell’O.T.I , che possono essere cosi elencati:
· Il miglioramento dell’emoreologia e, quindi, del microcircolo , attraverso l’aumento della deformabilità degli eritrociti ;
· Il ripristino dei meccanismi aerobi cellulari e tessutali;
· La distanza di diffusione dell’ossigeno si quadruplica in iperbarismo;
· La riduzione dell’edema perilesionale.

Quest’ ultimo è causa di aggravamento dell’ischemia , per l’effetto compressivo esercitato sul microcircolo, con riduzione della diffusione di O2. L’O.T.I esplica tale azione antiedemigena sia attraverso l’azione vasocostrittrice ,con conseguente riduzione del flusso arterioso ed arteriolare, sia attraversa la ripresa funzionale dell’endotelio vascolare e, quindi con minori danni da alterata permeabilità ;
· La proteolisi del tessuto necrotico, la trombolisi , la
proliferazione dei fibroblasti, del collagene, e dei capillari, la migrazione di cellule epiteliali neosintetizzate, l’attivazione di osteoclasti/osteoblasti, a valori pressori di O2 non inferiori a 30 mmHg ;
· La neoformazione dei vasi capillari nelle aree danneggiate;
· L’inibizione dell’adesione ei leucociti all’endotelio nei tessuti danneggiati , favorendo la ricanalizzazione;
· L’aumento della “killing ability” dei leucociti e l’inibizione della produzione di tossine in alcuni germi anaerobi ;
· L’azione battericida e batteriostatica esplicata dai radicali liberi, che agirebbero sui lipidi e sulle proteine di membrana ;
· La stimolazione (a 4 ATA) dei polimorfonucleati alla produzione di sostanze battericide , come il perossido di
· idrogeno , l’ipoclorito, le coramine, attraverso l’attivazione della NADPH ossidasi e della mieloperossidasi, presente nei vacuoli ;
· La riduzione dell’acido lattico ematico ;
· Compressione e riduzione dell’aria presente nell’organismo.

INDICAZIONI, CONTROINDICAZIONI ED EFFETTI COLLATERALI DELL’OSSIGENOTERAPIA IPERBARICA (29)
Il trattamento iperbarico è una metodica che tende a sfruttare la pressione di un gas come effetto terapeutico. Per camera iperbarica s’intende un ambiente dove sia possibile aumentare con aria ed in modo controllato la pressione interna fino a valori determinati (massimo 6 ATA- 5 bar).
L’ossigenoterapia iperbarica (O.T.I) è la somministrazione per via inalatoria d’ossigeno al 100% ad una pressione superiore a quella dell’ambiente (massimo 2,8 ATA 1,8 bar per un tempo non inferiore a 60 minuti intervallato da tre pause di 3-5 min), al fine di sfruttare la solubilità di un gas in un liquido e la sua
diffusione tissutale, in base ad un elevato gradiente di pressione.
La terapia si svolge in tre fasi:
1) Fase di compressione o discesa
2) Quota di terapia ;
3) Fase di decompressione o risalita ;


Inizialmente considerata quale un indispensabile presidio terapeutico di alcune patologie acute, quali l’embolia gassosa arteriosa (EGA), la malattia da decompressione (MDD), e le intossicazioni da monossido di carbonio (CO) o da sostanze metaemoglobinizzanti, l’ossigenoterapia iperbarica ha successivamente, trovato largo impiego in numerose altre affezioni .
Le indicazioni all’O.T.I sono state fondamentalmente suddivise in due categorie:

1) Indicazioni indilazionabili , urgenti e primarie per le quali l’O.T.I riveste un ruolo determinante :
· Embolia gassosa arteriosa (EGA) ;
· Malattia da decompressione ( MDD);
· Intossicazione da monossido di carbonio (CO);
· Gangrena gassosa da clostridi ;
· Infezione del derma da flora batterica mista ;
· Piede diabetico gangrenoso ;
· Sindrome da schiacciamento (crush syndrome);
· Osteoradionecrosi e radionecrosi dei tessuti molli;
· Sordità neurosensoriale improvvisa ;

2) Indicazioni in cui l’O.T.I è di sicuro vantaggio , da sola o associata ad altre terapie mediche o chirurgiche
· Osteomielite cronica refrattaria ;
· Trapianti cutanei a rischio ;
· Insufficienze arteriose periferiche ;
· Fratture a rischio ;
· Osteoporosi post-traumatica (morbo di Sudek) ;
· Ferite problematiche ( piaghe torpide da trauma, decubito, ustioni termiche ed elettriche, ulcere da insufficienza arteriosa e venosa );
· Actinomicosi refrattaria ;
· Reimpianto di arti o segmenti ;
· Trombosi dell’arteria o della vena centrale della retina ;
· Retinite pigmentosa ;
· Retinite diabetica ;
· Ustioni estese o malattia da ustione ;

Controindicazioni assolute al trattamento iperbarico.
· Enfisema bolloso ;
· Asma evolutivo ;
· Episodi di pneumotorace spontaneo ;
· Claustrofobia ;

Controindicazioni concernenti il trattamento iperbarico
· Otiti e/o sinusiti recidivanti ;
· Patologie cardiache ischemiche e/o congestizie ;
· Ipertensione arteriosa non trattata farmacologicamente ;
· Patologie polmonari restrittive di grado elevato ;
· Glaucoma e/o distacco di retina ;
· Gravidanza normoevolvente (primo trimestre) nei trattamenti iperbarici per patologie non acute ;

Effetti collaterali dell'O.T.I
· Tossicità dell’ossigeno da radicali liberi ;
· Barotraumi .


L’INFERMIERE DI CAMERA IPERBARICA(30)
I moderni impianti iperbarici hanno ormai raggiunto un tale livello di complessità da richiedere personale altamente specializzato ed aggiornato, sia in campo sanitario che tecnico.
A tale proposito, è stato indicato da apposite commissioni tecnico-scientifiche l’organico ottimale che un Servizio di O.T.I deve avere e che prevede la collaborazione, a tempo pieno delle seguenti figure professionali:
· Responsabile sanitario;
· Personale sanitario ;
· Personale tecnico;
· Personale amministrativo;
Il personale sanitario è costituito da medici e infermieri.
Gli infermieri che operano in un centro iperbarico, devono avere l’idoneità psico-fisica al lavoro in ambiente iperbarico, conoscenze delle tecniche di assistenza intensiva, apposita formazione sull’assistenza sanitaria ad un paziente trattato in iperbarismo e padronanza delle procedure relative alle manovre da effettuare all’interno della camera .
Il personale sanitario di assistenza deve essere presente all’interno della camera, insieme ai pazienti, in tutti i casi elencati nella (tabella 1)
L’infermiere di camera iperberica, oltre a svolgere mansioni organizzative proprie della professione (preparazione e controllo delle attrezzature indispensabili per un centro O.T.I) (tabella 2),deve assistere il paziente, sia durante la terapia ordinaria sia durante una terapia d’emergenza.
La mia attenzione sarà prevalentemente rivolta alla terapia ordinaria, che può essere suddivisa in tre momenti :
1. Assistenza durante la visita d’idoneità;
2. Assistenza in camera iperbarica;
3. Assistenza dopo il trattamento con ossigeno iperbarico (medicazione);

L’INFERMIERE DURANTE LA VISITA D’IDONEITA’ AL TRATTAMENTO.
La visita d’idoneità al trattamento viene effettuata dal medico specialista in anestesia e rianimazione assistito da un infermiere.
La visita è fondamentale per valutare l’indicazione e l’idoneità del paziente al trattamento, essa rappresenta il momento chiave di tutta l’impostazione terapeutica.
Deve essere nel suo insieme un esame approfondito del paziente e della sua documentazione clinica.
L’infermiere, in questa fase, partecipa alla compilazione della
cartella clinica, ed alla raccolta delle indagini strumentali quali ECG, RX TORACE,(fondamentali per valutare il rischio cardiologico e polmonare), ed ancora, raccoglie e controlla la documentazione clinica specialistica (O.R.L.) al fine di individuare patologie che possano rappresentare una controindicazione al trattamento iperbarico .
Nel caso in cui un paziente è affetto da lesioni cutanee il medico, con l’aiuto dell’infermiere, deve valutare la lesione del paziente dando indicazioni circa il tipo di medicazione da eseguire ed il numero di controlli settimanali.
E’ fondamentale in un centro O.T.I fotografare una lesione prima di iniziare il trattamento iperbarico e avviare il programma di trattamento della lesione, al fine di monitorizzare e documentare il processo di guarigione della lesione.
Dopo aver esaminato il paziente, il medico, informa l’infermiere circa il numero di sedute e la pressione di trattamento ed insieme illustrano al paziente il comportamento da tenere prima e durante la terapia iperbarica, con informazioni riguardanti le diverse manovre di compensazione, da effettuare ai fini di una corretta compensazione (tabella3 ), il vestiario, oggetti e/o prodotti cosmetici permessi o proibiti (tabella 4).
Prima dell’inizio della terapia , è d’obbligo in un centro O.T.I,
che il medico inviti il paziente a leggere e firmare il “consenso informato” documento contenente :
Obiettivi, rischi, procedura terapeutica ,comportamento da assumere in camera , eventuali effetti collaterali, documento
controfirmato dal responsabile medico.(tabella 5)

L’ASSISTENZA INFERMIERISTICA IN CAMERA IPERBARICA.
La chiamata per l’accesso nel centro iperbarico viene effettuata dall’infermiere, il quale presa visione delle cartelle cliniche,
complete dei documenti per l’autorizzazione al trattamento, inizia a registrare i pazienti che dovranno sottoporsi al trattamento.
Ogni paziente ha un armadietto personale nel quale depositare il vestiario e tutti gli oggetti in suo possesso e riceve ed indossa il camice ignifugo, privo di tasche a manica lunga e calzari .
Il medico prima di dare inizio alla terapia si accerta delle buone condizioni psico- fisiche dei pazienti, mentre l’infermiere provvede all’assistenza nella vestizione dei pazienti non autosufficienti, ed alla corretta gestione dei presidi sanitari di cui i pazienti possono disporre (cateteri vescicali, terapie infusive, sistemi di drenaggio, ed altro).
In caso vi siano pazienti portatori di cannule tracheostomiche,
l’infermiere deve assicurarsi che in camera vi sia tutto il necessario per la corretta esecuzione della terapia del paziente tracheostomizzato (aspiratore di muchi , raccordi per cannule).
Una volta che i pazienti sono entrati in camera, ci si accerta, ancora una volta, che tutti abbiano compreso le manovre di compensazione e che tutti abbiano lasciato fuori gli oggetti ed i materiali assolutamente vietati in camera.
Il ruolo dell’infermiere in camera iperbarica è rivolto ad assistere i pazienti durante tutte le fasi della terapia, garantire loro la massima sicurezza e una corretta terapia iperbarica.
La fase di compressione o discesa è il momento che corrisponde alla pressurizzazione, che si identifica con l’immissione dell’aria in camera iperberica; la pressione aumenta, cosi come durante un’immersione subacquea, con la differenza che l’ambiente, in questo caso, non è umido, bensì secco.
La fase di discesa è attuata con una velocità di circa 1 metro al minuto ed è, comunque, condizionata sia dalla capacità di compensare del paziente sia dalle sue patologie, attuali e/o pregresse ; la durata di questa fase è, inoltre, variabile in funzione della batimetria a cui verrà effettuato il trattamento.
Durante la compressione si determinano variazioni di aumento di temperatura ed umidità ; sarà cura dell’operatore mantenerle entro limiti accettabili .
I pazienti dovranno effettuare, tempestivamente e preventivamente, la manovra di compensazione, con le metodiche già descritte dal medico prima della seduta iperberica; tale manovra serve a ristabilire l’equilibrio tra l’aumentata pressione atmosferica all’esterno della membrana timpanica e quella presente nell’orecchio medio.
La mancata ( o inefficace ) effettuazione della compensazione può determinare notevoli alterazioni dell’apparato uditivo, che si configurano nella patologia da barotrauma .
In questa fase, quindi, l’ infermiere di camera iperbarica deve rivolgere la sua attenzione ad individuare e quindi sorvegliare in modo particolare quelli che possono essere i potenziali pazienti a rischio per una mancata o inadeguata compensazione e quindi a rischio per lesioni timpaniche.
Raggiunta la quota di circa 1,3 ATA, i pazienti iniziano a respirare ossigeno, attraverso maschere oro-facciali a domanda, che l’infermiere presente in camera deve posizionare correttamente al fine di assicurare, non solo una corretta terapia, ma anche di scongiurare eventuali dispersioni di ossigeno all’interno della camera iperbarica.
Una volta raggiunta la quota terapeutica, l’infermiere controlla
nuovamente il corretto posizionamento delle maschere e in
comunicazione tramite interfono con il tecnico iperbarico chiede
ulteriore conferma circa la normale percentuale di ossigeno in camera. Soprattutto in quota l’attenzione dell’infermiere deve essere rivolta all’individuazione precoce di quelli che possono essere i segni e i sintomi di un evento acuto legato all’iperossia e/o alle patologie di base dei pazienti ( convulsioni, crisi ipoglicemiche, crisi vagali ). La somministrazione di ossigeno al paziente può avvenire in tre cicli, intervallati da circa cinque minuti, oppure in un ciclo unico della durata totale di 70 minuti.
La somministrazione di ossigeno continuerà anche risalita fino alla batimetria 1.3 ATA.
La fase di decompressione o risalita, è caratterizzata dalla diminuzione della pressione, sino ai valori di quella atmosferica (1ATA). La fase di decompressione avviene con una velocità di circa 1 mt al minuto e la sua durata dipende sia dalla batimetria raggiunta per poter effettuare la terapia sia dalle condizioni del paziente. Anche in questa fase, le eventuali variazioni di temperatura e umidità dovranno essere mantenute, ad opera del tecnico, entro limiti accettabili.
I pazienti devono continuare a respirare normalmente, senza trattenere aria nei polmoni.
A fine terapia i pazienti devono rimanere seduti al loro posto fino all’apertura della camera.
Durante questa fase i compiti dell’infermiere restano invariati rispetto a quelli delle fasi precedenti, (ad eccezione del controllo della compensazione), va rivolta, però, particolare attenzione alla prevenzione di un evento traumatico della membrana timpanica , causato dalla mancata estroflessione della membrana che in condizioni normali avviene durante la fase di decompressione.
Si tratta di un evento raro, ma molto doloroso che crea seri danni alla membrana timpanica. Anche in questo caso è compito dell’infermiere accertarsi che nessun paziente abbia fastidi e/o
dolori durante questa fase, in caso ciò si verifichi si avvisa urgentemente il conduttore il quale provvederà eventualmente a ridurre la velocità di decompressione.
Al termine della seduta, l’infermiere indirizza i pazienti autosufficienti agli spogliatoi, successivamente accompagna i pazienti non autosufficienti al di fuori della camera e provvede alla svestizione.
Qualora i pazienti durante la terapia presentassero otalgia, o altri disturbi, verranno accompagnati dal medico, il quale sottoporrà i pazienti ad una visita più accurata .



L’INFERMIERE E LA MEDICAZIONE
Alla fine della seduta iperbarica vengono eseguite le medicazioni di controllo, secondo un calendario settimanale stabilito dal medico.
Le medicazioni vengono effettuate dall’infermiere su indicazione del medico, il quale, durante la visita di idoneità al trattamento da indicazioni all’infermiere circa il tipo di medicazione da effettuare.
La sostituzione della medicazione costituisce un momento molto importante ai fini della guarigione di un’ulcera .
L’infermiere che opera in un centro di ossigenoterapia
iperbarica, deve possedere delle capacita specialistiche per poter
eseguire la sostituzione di una medicazione di una ferita acuta o cronica a guarigione secondaria .
In questo caso, infatti, la medicazione della ferita rappresenta un intervento terapeutico essenziale con il quale si possono influenzare tutte le fasi del processo di guarigione della ferita. E’dunque chiaro che anche la qualità della sostituzione della medicazione è corresponsabile per il successivo decorso del processo di guarigione.
Ogni sostituzione della medicazione deve avvenire in condizioni di sterilità. Poiché la maggior parte delle infezioni delle ferite viene trasmessa con il contatto delle mani, nella sostituzione della medicazione, si deve sempre adottare la cosiddetta “non- touch – technic”, in cui la ferita o la medicazione non vanno mai toccate con le mani nude.
La sostituzione della medicazione deve essere eseguita preferibilmente da due persone, previa preparazione di un apposito carrello delle medicazioni, munito di tutto il materiale per le medicazioni.( Tabella 6) .
Durante il cambio della medicazione, l’infermiere deve porre particolare attenzione a tre aspetti fondamentali:
1 ) Garantire la massima asepsi durante la pratica;
2) Sostegno psico- fisico al paziente;
3) Provocare minimo dolore possibile durante le manovre;
Senza mai perdere di vista gli obiettivi su indicati, l’iter procedurale nell’esecuzione pratica della medicazione può essere schematizzato ed ordinato nel seguente modo:
A )Avvisare il paziente in tempo utile, circa la sostituzione della medicazione;
B )Preparare l’ambiente in cui si effettuerà la medicazione assicurando una corretta fonte di luce, eliminando evidenti serbatoi di germi, e riparando il paziente dalla vista di altre persone ;
C) Preparare il carrello delle medicazioni;
D) Posizionare il paziente in modo comodo e con la zona da medicare ben esposta ;
E) Disinfettare accuratamente le mani ed indossare guanti monouso non sterili ed eventualmente indumenti di protezione ( mascherina, grembiule, occhiali di protezione) ;
F) Rimuovere il fissaggio della medicazione;
G) Rimuovere con delle pinze sterili la medicazione, facendo attenzione a non forzare la rimozione in caso di adesione della garza alla ferita . In tal caso è necessario imbibire la medicazione con soluzione fisiologica fino a totale distacco dalla lesione, ciò al fine non solo di ridurre il dolore durante questa manovra, ma soprattutto di evitare danni ad un eventuale tessuto neoformato.
H) Gettare la medicazione nei rifiuti settici, eliminare le pinze usate, e gettare via i guanti usati ;
I) Indossare guanti monouso sterili ed ispezionare la ferita segnalando eventuali modificazioni cliniche rispetto alle medicazioni precedenti e quindi rispetto alla valutazione iniziale della lesione;
J) Detergere la lesione mediante una lavaggio semplice ma accurato con soluzione fisiologica ed eventualmente valutare se ci sono gli estremi per una detersione più complessa ( sbrigliamento);
K) Asciugare la lesione, utilizzando ovviamente pinze e garze sterili, tamponando delicatamente la zona ;
L) Disinfettare la lesione e la cute perilesionale, utilizzando antisettici a bassa attività istolesiva, e facendo attenzione a proseguire dal centro verso l’esterno in caso di ferite non infette e viceversa ;
M) Risciacquare abbondantemente con soluzione fi siologica al fine di eliminare ogni traccia di disinfettante che oltre ad essere istolesivo potrebbe anche inattivare gli eventuali prodotti medicamentosi da applicare in seguito;
N) Asciugare nuovamente la zona;
O) Applicare la medicazione indicata dal medico , seguendo fedelmente le indicazioni dei prodotti e in modo sterile;
P) Applicare la medicazione secondaria (compresse di cotone idrofilo, film semipermeabili) in base al tipo di lesione;
Q) Fissare la medicazione in modo corretto ed in base alla natura della lesione utilizzando a secondo del caso bende, cerotti TNT, bendaggi elasto compressivi come nel caso delle lesione di origine venosa;
R) Eliminare tutti i presidi utilizzati (pinze ,forbici,specilli)
S) Collocare nuovamente il paziente nella posizione a lui più comoda oppure obbligata ai fini terapeutici ;
T) Assicurarsi che il paziente non presenti eccessivo dolore dopo la medicazione:
U) Annotare eventuali osservazioni da riferire al medico;
V) Bonificare l’ambiente prima di effettuare un’altra medicazione;

La frequenza del cambio della medicazione dipende dalla condizione della ferita e dalle singole caratteristiche delle compresse utilizzate.
Va evitata il più possibile una sostituzione inutile poiché ogni cambio della ferita costituisce un disturbo del riposo della ferita.
Per principio la medicazione va controllata ed eventualmente sostituita se:
· il paziente lamenta dolori;
· è subentrata la febbre;
· la medicazione si è macerata e sporcata , oppure la sua capacità assorbente è esaurita;
· il fissaggio si è staccato.
A differenza di una ferita asettica e a guarigione primaria, per le quali la medicazione resta chiusa fino alla rimozione dei punti di sutura, salvo complicazioni, nelle ulcere valutare la frequenza del cambio della medicazione diventa più difficile perché vanno considerati alcuni aspetti fondamentali: stato di
granulazione e di epitelizzazione , oppure presenza d’infezione o eccesso di essudato, negli ultimi due casi la sostituzione può rendersi necessaria anche due volte al giorno.
Quando invece la ferita è pulita , priva d’infezione e diventa man mano visibile il tessuto di granulazione, è possibile ridurre la frequenza delle medicazioni, usando come accennato in precedenza compresse idroattive che possono restare sulla ferita anche per più giorni.


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